Grimsby – Attenti a quell’altro
Bersaglio mancato, Mr. Cohen!
E suona come beffarda ironia della sorte visto che in Grimsby, ultimo lungo del comico ebraico-britannico più famoso di Hollywood, si spara più che in American Sniper.
La storia dei due fratelli Butcher (Grimsby è la periferia degradata che gli ha dato i natali) non è un brutto film per la palesemente disgustosa scena degli elefanti (di cui potete trovare ampia descrizione in rete). Sarebbe troppo semplicistico ridurre tutto a questo o al fatto che si insista sugli stessi repellenti temi tutto il tempo (rapporti sessuali impropri e dolorosi, escrementi, volgarità gratuita). Lo è perché il Trash è un genere specifico, con regole proprie e non può, non deve mai essere fine a se stesso.
Le scene d'azione sono davvero belle e finemente girate (evidenti quanto esilaranti parodie di Mission Impossible spinte, come era prevedibile, sino all’inverosimile) e le location notevoli ma narrativamente, se si eccettuano alcuni simpatici guizzi di genio (es. la scena che vede coinvolto un finto Donald Trump, riferimento indiretto all’esilarante intervista che lo stesso Cohen, nei panni del rapper Ali G, fece al vero Trump nel lontano 2003), lo spettatore si trova di fronte ad un guscio vuoto, debordante di luoghi comuni, tra l’altro difficilmente comprensibili appieno se non si è anglosassoni (il doppiaggio distrugge, infatti, le varianti dialettali con le quali l’esperto artista, qui in veste di produttore e sceneggiatore, gioca da sempre per disegnare i propri personaggi, connotazioni che stavolta gli hanno addirittura inimicato la stampa britannica) ed è davvero un gran peccato perché Sacha Baron Cohen è, a suo modo, un genio.
Paradossalmente, fa più ridere lo scontro (a prescindere dal fatto che sia reale) che lo ha pericolosamente coinvolto con il rissoso Liam Gallagher cui Cohen sembra essersi ispirato per il look barba-basette da ipercoatto-alcolista-calciomane periferico e borderline, esatto negativo fotografico del suo amatissimo (pure troppo, come vedrete) fratello, il fichissimo ed infallibile agente speciale-spia dell’MI6 (la CIA britannica) Sebastian Graves, interpretato da un brillante ed autoironico Mark Strong (Syriana, Zero Dark Thirty, The Imitation Game, Kingsman: The Secret Service), nomen omen, perfettamente e rocciosamente in parte nonostante la follia del contesto.
Totalmente sprecati i ruoli femminili, tristemente monodimensionali (incluso quello della divina Penelope Cruz nei panni della villain Rhonda George che vuole “curare il mondo”), fatta eccezione per quello della signora Cohen, la splendida quarantenne Isla Fisher e vedere Gabourey Sidibe (candidata all’Oscar come Miglior Attrice per Precious nel 2009) schiacciata in una macchietta (paradossalmente, una delle migliori, sebbene giunta con 60 anni di ritardo) fa davvero male.
In conclusione, probabilmente Baron Cohen aveva posto l’asticella troppo in alto con le sue prove precedenti e come accade ai migliori atleti, quando detieni il record del mondo con 16 anni di sfavillante carriera, il fallimento è, inevitabilmente, dietro l’angolo. Ci resta un amletico dubbio: cosa avrà voluto dirci? Che i britannici bevono troppo, fanno casino allo stadio e poi, ebbri, si riproducono come conigli? Che le scene scatologiche e seminali al cinema fanno sempre ridere? Perché seppellire l’immutato affetto tra due fratelli che il destino ha separato da piccoli, sotto tristi e politicamente scorrette gag sull’AIDS ed una valanga di piombo fuso? Urge un Grimsby 2 che ci riveli il senso dell’1 ma stavolta senza pachidermi, please.