Graduation (Bacalaureat)
Nel 2007 Il rumeno Cristian Mungiu aveva esordito con 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, un complesso dramma sulla realtà dell’aborto clandestino nella Romania prima della caduta di Causescu. Un’opera perfettamente centrata e dotata di un estremo realismo che aveva fatto guadagnare al regista la Palma d’oro al Festival di Cannes di quell’anno. Nel 2012 con Oltre le colline il regista aveva messo in piedi un altro dramma altrettanto ben orchestrato e ancor più cupo del precedente in cui trattava la controversa materia di una ragazza vittima di un credo religioso oscurantista e infine anche ‘assassino’.
Nel 2016, Mungiu torna a Cannes con Bacalaureat, parabola complessa eppure estremamente lineare di un padre (che lavora come medico in una piccola cittadina della Transilvania) che per via di una visione retrograda fin troppo schematica e parziale delle realtà che lo circonda (la figlia che deve diplomarsi e partire per studiare in Inghilterra, la moglie malata e da tempo a lui alienata, l’amante con cui trascorre ritagli di tempo senza dedicarle una vera attenzione) metterà in atto una serie di azioni che da una piccola scintilla si trasformeranno in vera e propria bomba reale e (soprattutto) emotiva, mettendo in fallo tutte le sue relazioni più intime.
Con quest’opera dalla sceneggiatura perfetta, dai dialoghi incalzanti e mai fuori posto, animata da un coro di attori formidabile (su tutti Adrian Titieni nei panni del protagonista Romeo), Mungiu realizza un vero capolavoro. Perché il suo Bacalureat corre sapiente lungo il bordo frastagliato di una società che si muove per conoscenze, favori ottenuti e concessi, segnando il confine (discreto) tra etica e obiettivi, principio e meta. La concezione machiavellica secondo cui il fine giustifica i mezzi offre infatti il destro al regista rumeno per scardinare questa verità col suo neorealismo di vita, operando con chirurgica perfezione all’interno di una realtà sociale (quella della sua terra che però rassomiglia anche a molte altre) dove basta che salti un tassello per far crollare l’intera impalcatura di equilibri, una miccia per scatenare l’incendio.
Romania ieri e oggi si scontrano a livello formale ed etico soprattutto nello splendido rapporto padre/figlia che il film disegna. Rapporto emblematico, determinate, esplicativo, e dove l’idea che “fuori di qui è meglio”, cozza con il principio di uguaglianza, moralità, perseveranza del modello educativo impartito. L’ossessione del padre di far studiare la figlia all’estero per garantirle un futuro migliore, e il modo messo in atto per ottenere questo fine saranno infatti proprio il fattore scatenante della sequela di eventi drammatici di lì scaturiti.
La cesellatura della sceneggiatura nella sua capacità di portare avanti l’intera rete narrativa senza perdere (o perdersi) nulla per strada mostra davvero una compiutezza straordinaria, da cui deriva lo stesso disarmante realismo presente anche nei lavori precedenti. Nella fotografia plumbea (anche questa una componente fondante dei lavori di Mungiu) s’incontra dunque lo scarto di due generazioni cresciute in un Paese profondamente diverso, ma riunite ore in un luogo dove la trasformazione è ancora in atto, ed è come navigare in un limbo ideologico e sociale. Un tema politico che avvolge tutto il film e lo contamina ma in manierale sottile, trasversale, discreta.
Il vero punto forte di Bacalaureat, però, risiede in quell’emozionalità trattenuta, sotterranea, ma molto profonda che monta graduale lungo le due ore di film. Scava dentro e cresce in prossimità dell’epilogo, sfogando tutta la potenza nella scena finale, dove il confronto, lo scontro, le tensioni accumulate trovano finalmente una loro catarsi. Un esempio magistrale di risoluzione con un impatto emozionale che sul finale travolge, consacrando il valore del film e il suo altissimo livello di qualità tecniche, artistiche e contenutistiche. La mano (e l’occhio) di un regista davvero straordinario.