Go with me
Ricordate Un gelido inverno, il film diretto nel 2010 da Debra Granik che, tratto dall’omonimo romanzo di Daniel Woodrell e candidato a quattro premi Oscar, si svolgeva in una sperduta zona montuosa del Missouri e vedeva Jennifer Lawrence nei panni di una diciassettenne alla disperata ricerca del padre a causa della sua complicata situazione familiare?
Se non lo ricordate, era un dramma a tinte thriller il cui look generale riaffiora più volte nella mente nell’assistere a Go with me, il lungometraggio che lo svedese Daniel Alfredson – autore de La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta – deriva da un libro di Castle Freeman Jr. per raccontare la vicenda della Lillian cui concede anima e corpo Julia Stiles, tornata da poco a vivere nella sua città natale, comunità di taglialegna ai limiti della foresta.
Comunità vittima delle persecuzioni di Blackway, ovvero Ray Liotta, ex poliziotto trasformatosi in un potente criminale e che, libero di spadroneggiare impunemente nel posto, proprio la donna decide di combattere, sebbene sia stata abbandonata dagli abitanti e dallo sceriffo, il quale le consiglia di lasciare la località. Un’impresa che porta avanti contro lo stalker supportata dall’ex taglialegna Lester e dal suo giovane assistente Nate, rispettivamente interpretati dal vincitore dell’ambita statuetta Anthony Hopkins e dall’Alexander Ludwig visto, tra l’altro, nella horror comedy The final girls.
Soltanto due dei lodevoli volti che, insieme al Lochlyn Munro di Freddy vs Jason e Hal”Creepshow”Holbrook, impreziosiscono il ricco cast su cui tende in maniera evidente a poggiare la circa ora e mezza di visione, così commentata dal regista: “Ritengo che Go with me sia simile ad un western classico. In effetti, ha tutti gli elementi di questo genere. Persone buone e cattive. Un momento che rappresenta un punto di non ritorno per tutti i protagonisti. E non ci sono assolutamente situazioni concilianti. Sono sempre stato un grande ammiratore di Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Per come la vedo io, i nostri eroi si trovano vicini all’oscurità più totale”.
Osservazioni sicuramente condivisibili e alle quali, complice la bella fotografia a cura di Rasmus Videbæk, è necessario aggiungere che la grigia atmosfera immersa nel noir non possa fare a meno di rappresentare uno dei maggiori pregi dell’operazione, propensa ad evolversi lentamente ma, a lungo andare, incapace di sfuggire alla morsa della fiacchezza narrativa.
Aspetto, quest’ultimo, che, purtroppo, finisce per penalizzare un insieme non disprezzabile nella confezione e con il reale movimento relegato esclusivamente alla sua ultimissima parte, rendendolo più adatto, probabilmente, ad una fruizione sul piccolo anziché sul grande schermo.