Frankenstein
Usare una nuova tecnologia per dare nuova vita ad una storia classica.
È partendo da questo presupposto che l’inglese classe 1960 Bernard Rose – autore, tra l’altro, di Candyman – Terrore dietro lo specchio (1992) e Il violinista del diavolo (2013) – ha provveduto a rispolverare il mito della creatura di Frankenstein, nata nel XIX secolo dalla penna di Mary Shelley e che abbiamo avuto non poche volte modo di ammirare sullo schermo, a cominciare dai tempi del muto.
Del resto, con un’ambientazione iniziale all’interno di un laboratorio che ricorda quasi Mr. Stitch – Pensieri residuali (1995) di Roger Avary, già variante del moderno Prometeo, è attraverso lo sfruttamento di una stampante 3D che i coniugi Victor ed Elizabeth Frankenstein incarnati da Danny Huston e dalla matrixiana Carrie-Anne Moss generano Adam alias Xavier”Fury”Samuel, incapace di controllarsi e che non tarda a ritrovarsi faccia e corpo mangiati da cancri, polipi e noduli a forma di cavolfiore.
L’Adam di cui ascoltiamo i pensieri e che, senza perdere tempo, tra impressionanti cure ed iniezioni nel collo vediamo quasi subito impegnato in una violenta fuga proto-Michael Myers; prima ancora che cominci a dedicarsi al vagabondaggio cibandosi di vermi e resti di animali investiti.
Perché, sebbene l’intento dell’operazione sia, ovviamente, quello di mantenersi fedele alle vicissitudini del mostro che ha avuto, tra gli altri, i connotati di Boris Karloff e di Robert De Niro, la sua originalità è individuabile nella felice scelta di miscelare su squallide strade della Los Angeles del terzo millennio le immancabili spruzzate di splatter – con crani frantumati a mani nude e colpi di pistola alla testa – e il concetto di emarginazione sociale da sempre presente nella storia dell'essere creato tramite l’assemblaggio di parti di cadaveri rianimate.
Concetto di emarginazione qui accentuato non solo dall’incontro con lo squattrinato musicista non vedente Eddie, interpretato dal Tony Todd che concesse anima e corpo proprio al sopra menzionato boogeyman di colore uncinato, ma anche da quello con una prostituta per soddisfare la propria necessità di sesso.
E il risultato finale, di conseguenza, lascia tranquillamente emergere il sapore di una attuale rilettura al di sopra della media, convincente sia a causa della maniera realistica in cui affronta una vicenda sempre appartenuta al filone fantastico, sia (e soprattutto) per i personaggi e le tematiche che non possono fare a meno di richiamare alla memoria il malsano fascino di produzioni underground del passato quali The driller killer (1979) di Abel Ferrara o determinati lavori del sottovalutato Frank Henenlotter, regista di Basket case (1981) e Brain damage – La maledizione di Elmer (1988).