Fräulein – Una fiaba d’inverno
Trattandosi di una fiaba, come suggerito dal titolo stesso, non poteva iniziare altro che con un “C’era una volta...” il primo lungometraggio di finzione diretto dalla giovane Caterina Carone, autrice del documentario Valentina Postika in attesa di partire (2010).
Lungometraggio che parte dalla figura di Regina, solitaria zitella scontrosa e testarda incarnata dalla Lucia Mascino della serie televisiva Una mamma imperfetta (2013) e che, da tutti chiamata Fräulein, è proprietaria di un albergo chiuso da tre anni in un desolato paese di confine lontano dal mondo comune e privo di coordinate spazio-temporali, dove vive in compagnia di una gallina bianca dal portamento aristocratico.
Albergo in cui irrompe improvvisamente lo smarrito e infantile turista sessantenne Walter cui concede anima e corpo Christian De Sica, il quale, pur trovandosi coinvolto in un’operazione decisamente lontana dalle pellicole comiche natalizie che gli hanno regalato la notorietà ha cominciare dai primi anni Ottanta, non manca comunque di regalare occasioni per sorridere allo spettatore.
Del resto, man mano che lo vediamo avanzare la pretesa di soggiornare nella struttura sebbene la donna – oltretutto convinta che i regali siano ricatti col fiocco – respinga più volte la sua richiesta, è in maniera evidente una commedia dai toni surreali quella destinata a prendere progressivamente forma sullo schermo.
Una commedia fornita di un certo fascino appartenente ad una vecchia concezione di spettacolo – complice, tra l’altro, la presenza di audiocassette di meditazione guidata – e al cui interno svolge una significativa funzione allegorica la grande tempesta solare che arriva a colpire il posto, provocando l’intensificazione dei blackout e di una strana sensazione di precarietà diffusa tra la gente.
Allegorica perché contemporanea alla burrasca ben più profonda che si scatena nella protagonista in seguito all’arrivo dell’uomo, più volte in preda a visioni di una bambina nel bosco e che si cimenta anche in una esilarante interpretazione canora di Spaghetti a Detroit di Fred Bongusto.
Successo musicale che, nel mezzo di una gradevole operazione costruita su lenti ritmi narrativi, va ad affiancare una colonna sonora di Giorgio Giampà richiamante vagamente alla memoria quella elfmaniana di Edward mani di forbice (1990) di Tim Burton, ovvero uno dei cineasti di riferimento della regista insieme a titoli quali Segreti e bugie (1996) di Mike Leigh e Harold e Maude (1971) di Al Ashby.
Regista di cui, per meglio comprendere le intenzioni del suo debutto, riportiamo questa dichiarazione: “Questo film è la storia di uno scontro che diventa un incontro tra due persone segnate dalla vita, congelate nelle proprie rispettive inquietudini, schiacciate dalla solitudine. È quindi la storia di un disgelo, di un cambiamento possibile, di un’amicizia. È un film di formazione, una coming of age story nella quale a crescere non sono due ragazzini, ma quelli che già si suppone essere due adulti. Walter e Regina scoprono, attraverso un tumultuoso percorso di avvicinamento, l’importanza del dialogo e dell’ascolto, mezzi attraverso i quali ogni individuo ritrova se stesso e si riconcilia con il mondo”.