Fiore del deserto
Fiore del deserto racconta il trauma di un corpo femminile violato a livello fisico e psicologico, ma parla anche di una donna che ha preso atto del proprio disagio e ha combattuto affinché questa pratica aberrante fosse denunciata al mondo.
La regista Sherry Hormann filma la vita della modella somala Waris Dirie, inondando la pellicola di numerosi flashback ambientati in territorio africano.
Sin da subito troviamo la piccola Waris consapevole di una condizione femminile disperata, che la obbliga a sposare a soli nove anni un uomo che ne ha circa cinquanta più di lei. Decide allora di tentare il tutto per tutto in un’avventura disperata, scappando a piedi nudi nel deserto in piena notte.
Già da questo episodio si capisce che la protagonista ha in sé la forza di infliggere un colpo micidiale alla Legge del Padre e al millenario tabù della supremazia maschile.
L’insegnamento che Waris ci dà è che non basta demonizzare il corpo della donna per sfuggire al terrore ancestrale della castrazione e al desiderio di controllo.
L’attrice e modella etiope Liya Kebede è perfetta nei panni della protagonista.
Al pari di Waris Dirie, la Kebede si è distinta come ambasciatrice per i diritti delle donne, quindi chi meglio di lei poteva interpretare un’icona femminile dal carattere forte e determinato?
La sua Waris è un misto di dolore, dolcezza sottile e vivacità infantile che sprigiona nel calore di due occhi nocciola da cerbiatta.
La affiancano due grandi nomi del cinema inglese: il magistrale Timothy Spall e Sally Hawkins con il suo solito repertorio a base di smorfiette e facce buffe, sempre convinta dell’opinione che la felicità porti fortuna.
Le loro incursioni hanno il compito di mitigare i toni drammatici della vicenda.
Ma, l’obiettivo della Hormann pretende a ragione di documentare con la carica emozionale che la scena richiede la barbarie dell’infibulazione inflitta alle bambine, mentre la voce di Waris fuori campo illustra i passaggi di questo macabro processo.
Fiore del deserto è un film necessario.
Il perché è presto detto: tramite un nome conosciuto pone la luce dei riflettori su una tematica che il popolo occidentale spesso e volentieri ignora, sebbene viva all’interno di una società multietnica.
Ci si augura che quest’opera di finzione raggiunga un pubblico maggiore del solito documentario - in Italia ancora considerato come un qualcosa prettamente d’élite - così che possa contribuire a recidere i paletti di stampo simbolico sorti tra “il nostro mondo” e la “loro etnia”.
Se Fiore del deserto riuscisse in simile intento, gli si potrebbe perdonare di tutto, anche il difetto di una regia un po’ troppo televisiva.