Festival di Berlino: Stanely Tucci e il suo quinto film da regista, Final Portrait

Nel 1964, a Parigi, Alberto Giacometti (Geoffrey Rush) è un artista di fama mondiale e di grandissimo successo. Eccentrico e nevrotico, il pittore e scultore svizzero fa guadagni stratosferici dettando le leggi della sua arte, e non solo. Ma sono i suoi vizi, più che i suoi pregi, a dominare il panorama della sua vita. Sposato di un matrimonio (con Annette) che non lo ‘ispira’ più, e annegato in quella bolla di insoddisfazione che spesso avvolge chi oramai ha raggiunto ogni obiettivo, Giacometti insegue soprattutto l’ossessione della perfezione e, quotidianamente, nutre di pari passo la propria fissazione per la prostituta Caroline, divenuta da anni sua amante e campagna.

Burbero, sboccato, e anche profondamente lunatico, l’artista Giacometti ha al suo fianco anche il fratello Diego, anch’egli artista, una sorta di alter ego che in qualche modo assorbe e argina smanie e idiosincrasie. Quando il critico d’arte e modello James Lord (Armie Hammer) accetterà di posare per Giacometti, attraverso la realizzazione di quello che diventerà un dipinto ‘impossibile’, si avvierà una viaggio di tentativi e riproduzioni volto a spiegare (in parte) il senso ultimo dell’arte e il nesso stesso condiviso con l’idea di perfezione.  Nei diciotto successivi giorni che l’artista impiegherà per portare a compimento il ritratto di Lord si andranno infatti consumando le fasi di un rapporto emblematico e rappresentativo, specchio del fragile e delicato sistema arte-artista.

Fuori concorso alla Berlinale con Final Portrait, l’attore e regista Stanley Tucci presenta un biopic incentrato sugli ultimi due anni di vita del controverso artista svizzero Alberto Giacometti, basato sulla biografia di James Lord dal titolo “Un ritratto di Giacometti”, e che narra le contraddizioni del mondo dell’arte. Già a suo tempo ‘ingaggiato’ per un film sulle declinazioni artistiche ne La migliore offerta di Tornatore, Geoffrey Rush si cala qui nei panni di un artista burbero e scontroso, saccente e schivo, diviso tra l’ossessione per una donna, gli eccessi del successo ottenuto (è così sopraffatto dai soldi che lancia mazzette di banconote in giro per lo studio), e l’insicurezza di non poter mantenere le aspettative di quel successo. “I ritratti non hanno senso e sono impossibili da fare”, dirà lui, indicando come il processo artistico sia qualcosa che molto spesso esula completamente da direttive, progetti e tempistiche.

Nonostante il soggetto e una storia per certi versi peculiari, Stanley Tucci non riesce a imprimere al suo film un tratto distintivo, o un colore registico memorabile, lasciandosi piuttosto sopraffare dalla necessità di ripercorrere e reiterare all’infinito i momenti di quell’evento. Al netto di un cast che poteva senz’altro offrire di più, la storia appare invece statica, e il film involuto, incapace di dire qualcosa che vada oltre i tic del protagonista e la forma in perenne divenire delle sue opere. Il Giacometti di Rush potrebbe, in fondo, essere chiunque altro, e questo Final Portrait non racconta niente di sufficientemente accattivante sulla sua figura di uomo o d’artista risultando, infine, come un ritratto sbiadito del mondo dell’arte e delle sue idiosincrasie