Festival di Berlino: “Chiamami col tuo nome”, i colori caldi dell’amore secondo Luca Guadagnino
Elio (Timothée Chalamet) ha diciassette anni, un’intelligenza avida, la passione sfrenata per la musica e per i libri. Figlio adorato di una bella famiglia borghese di grande cultura e apertura mentale, Elio sembra sapere già tutto del mondo che lo circonda. Ma è ancora digiuno di vita, di emozioni vere, di corse a piedi nudi sul campo minato dei sentimenti. Ma con l’arrivo di Oliver (un dottorando americano invitato dal padre professore) presso la splendida villa di famiglia nel Nord Italia, tutto è destinato a cambiare. La bellezza del ragazzo, l’aria di sicurezza che lo avvolge e il fascino che da lui si sprigiona, porteranno lentamente Elio a scoprire (e scoprirsi) davvero nel profondo. Un’estate lunga, brillante, piena di musica e di momenti che segnerà l’educazione sentimentale e anche il coming out dello stesso Elio. Due svolte decisive, due momenti unici, e una girandola di sentimenti segnati da paura, eccitazione, felicità, dolore, disperazione che metterà in moto davvero e per la prima volta il cuore profondo del diciassettenne. Risate e lacrime, speranze e illusioni si alterneranno senza sosta all’interno della cornice di un’Italia primi anni ‘80 malinconica e ‘stonata’, spensierata e illuminante, chiamata a fare da sfondo a una storia d’amore a un tempo simbolica e passionale.
Trasponendo per il grande schermo l’omonimo romanzo di André Aciman, Luca Guadagnino presenta nella sezione Panorama Special alla 67/a Berlinale Call me by your name (letteralmente Chiamami col tuo nome), un film che porta in emersione tutta la forza dell’innamoramento, del dolore, della paura e anche del senso di ribellione che un sentimento così totale sa e deve esercitare. Le pulsioni sessuali tipiche dell’adolescenza, la ricerca disperata della propria identità (sessuale e non), e la forza eversiva di un momento della vita in cui non ci sono vie di mezzo ma solo bianchi o neri, s’incontrano per dare vita e forma a questo film davvero capace di trasportare a galla l’emozione primigenia e verace dell’innamoramento nella sua fase zero. Nella costruzione lenta, graduale, ed estremamente naturale che Guadagnino fa della sua storia, c’è in fatti il “tempo emotivo” per prenderne parte, lottare e agitarsi assieme al giovane protagonista Elio (uno straordinario Timothée Chalamet).
La sua progressiva transizione da uno stato schivo e scostante a quell’esaltazione ‘ubriaca’ generata dallo schiaffo dell’amore è infatti perfettamente commisurata alla crescita emotiva che Call me by your name impone non solo alla storia ma, anche, di riflesso, allo spettatore. In un Nord Italia di primi anni ’80 raccontato con una fotografia ‘nostalgica’ e da un tripudio tutto borghese di polo Lacoste e poliglottismo imperante ma non borioso (si parla inglese, tedesco, francese, inglese), il coming of age e il coming out di Elio doppiano l’emozione originata dalle tante paure che abbracciano la totalità di questo film: la paura di non essere compresi, accettati, amati. Ed è poi come se la dimensione fisica dell’opera (paesaggi, corpi, movimenti) riuscisse a contenere perfettamente quella emozionale, segnando il corso della storia con delle tappe che s’identificano non solo con degli attimi precisi (alcuni davvero bellissimi come il dialogo finale e catartico padre-figlio), ma anche con dei luoghi che diventano tasselli di memoria. La campagna, le acque, la montagna, tutti bagnati da un sole caldo.
Il romanticismo del contesto bucolico fa dunque da culla a tutte le nascite che il film accoglie, in primis quella dell’amore tra due ragazzi che si sublima attraverso gli impedimenti, gli ostacoli e l’impossibilità. Una sceneggiatura di livello (firmata dallo stesso Guadagnino assieme a James Ivory e Walter Fasano), una regia ispirata, e un ottimo cast (vera rivelazione il giovane Chalamet, ma altrettanto convincente qui anche il coprotagonista Armie Hammer), fanno poi il resto segnando la qualità di questo film già abbondantemente applaudito allo scorso Sundance. Era forse dai tempi de La vie d’Adele che non si vedeva una storia d’amore raccontata in maniera così delicata eppure schietta, partecipata e travolgente. Guadagnino qui ingrana la marcia dell’estemporaneo mettendo pienamente a frutto la lezione dei racconti amorosi alla Rohmer, e lascia che il film si svolga da solo, si prenda i suoi spazi e i suoi tempi. Una scelta vincente, visto che poco a poco l’occhio dello spettatore si sovrappone a quello del protagonista Elio ed è come se lo stato erotico e d’innamoramento strabordasse letteralmente dallo schermo. Una sensazione che poi si fissa con le musiche e resta a galleggiare anche oltre i titoli di coda. Non si può non amare un film così.