Favolacce - I nuovi mostri di una periferia sboccata e intossicata

In una periferia romana tanto geometrica quanto del tutto anonima, una manciata di famiglie vive le sue giornate sotto cieli plumbei, quotidianità segnate da un profondo senso di inadeguatezza e tentativo vano di conquistare un qualche senso di appartenenza più alto, valido, gratificante. E se gli adulti galleggiano nella loro triste e sofferente realtà di villette a schiera e lavori qualunque, mancanti, inadatti, i ragazzi tentano (come possono) di opporre un freno a quella povertà di valori, e di riscattare (in primis attraverso la scuola), la mediocrità economica e soprattutto morale e intellettiva che sembra circondarli. Gli adulti, assolutamente non in grado di incarnare quei punti di riferimento che dovrebbero invece incarnare per crescere e formare giovani vite, vestono invece svogliati una volgarità che passa dai pensieri alla parole e poi, inopinabile, anche alle azioni. Il linguaggio scurrile e violento domina una planimetria negletta di vite ai margini, dove l’idea di genitorialità è un concetto sfuggente quando non del tutto malsano. E se un boccone di carne finito di traverso basta a deflagrare la drammaticità di una dimensione famigliare vuota e inadempiente, le pagelle eccellenti e piene di voti ottimi declamate ad alta voce al vicinato, non bastano a contrastare il senso di carenza che circonda e avvolge queste villette a schiera tutte uguali, tutte ugualmente sole, tutte specchio residenziale di una insoddisfacente condizione di vita. E, così, nel paradosso eclatante di questa marginalità, perfino dal luogo primigenio di (presunto) insegnamento e (auspicabile) “buona condotta” arriveranno indizi malati di sofferenza e ribellione, come la mente subdola di un professore capace di instillare il germe del male in un gruppo svuotato, incosciente e incapace di reagire, di ragazzi tutti ugualmente figli di un’umanità malata.

Orso d’argento a Berlino 2020 per la migliore sceneggiatura, Favolacce, opera seconda dei fratelli D’Innocenzo, già acclamati per il primo lungometraggio La terra dell’abbastanza, rinnova la loro riflessione su una periferia allo sbando veicolo di un’umanità traviata.

Sospeso tra favola nera, realismo, e surrealismo grottesco, questo Favolacce si discosta dal primo film per uno stile ben più stralunato e fiabesco che serve però molto bene le vicende disagiate e a tratti “mostruose” di questo gruppetto di famiglie infilate a “malavoglia” nella periferia romana di Spinaceto. Immersa in un cielo plumbeo e in una dimensione che di fiabesco ha solo le suggestioni, e le espressioni più grottesche dei suoi protagonisti, l’opera seconda dei fratelli romani marca stretta l’intensità di alcuni “banali” fatti di cronaca per mostrarne il volto più drammatico, truce, inquietante, distruttivo.

Intrecciando a doppio filo la storia da prima pagina di genitori macroscopicamente inadempienti, Favolacce ruota a tutto tondo attorno ai confini di una genitorialità tutta ugualmente insufficiente e sofferente, da cui derivano figli che incarnano tutta quella macroscopica insoddisfazione di vita che li ha generati. Famiglia, scuola, amici, frequentazioni. Niente è reale, ma solo mera esteriorità in dissolvenza, e niente è davvero in grado di risollevare questa realtà umana dal suo torpore esistenziale, e degrado relazionale, spingendola anzi sempre più verso un auto-avvelenamento che sarà morale e spirituale ancor prima che reale. Meno vivida dell’opera precedente, Favolacce possiede comunque l’ipnotismo di un labirinto magico, di una geometria esistenziale abitata da lupi, e antieroi, e dove l’unica via di fuga è come sempre rappresentata da una serie inscindibile di atti di escapismo estremo.