Falling – Storia di un padre
Un padre anziano (Willis) e affetto da demenza senile (elemento direttamente tratto dall’autobiografia di Mortensen), oramai non più tanto in grado di stare dietro alla storica tenuta di famiglia e ai suoi beneamati cavalli, torna in California scortato dal figlio (il John di Viggo Mortensen), per trascorrere del tempo insieme e valutare (anche) un futuro trasferimento. Un figlio che, dal canto suo, tenta di sanare le fratture di una vita con un padre complesso, burrascoso e (da) sempre poco conciliante. Ma l’anziano uomo è ancora un muro, incontentabile e aggressivo come lo era un tempo, come lo è stato con le sue mogli, con i figli, e ora lo è anche con i nipoti (fatta eccezione per la nipote adottiva Monica, unica esistenza con cui il nonno sembra adottare un tono comprensivo e pacifico). Tra un presente di critiche aspre, attacchi gratuiti, e graffianti e omofobe accuse al figlio (la sua omosessualità è solo uno dei tanti e variegati bersagli del padre) del presente, e i flashback del passato che rimandano a un’infanzia spigolosa e anaffettiva, Falling mette in scena tutta l’incomunicabilità più violenta di un uomo incapace di ammorbidirsi pur sul finire dei suoi giorni.
Vite in pezzi
Viggo Mortensen al suo debutto registico (che qui scrive, dirige e recita) si lancia in un racconto viscerale, intimo, scontro tra due uomini senza margini d’incontro o di pacificazione, dove il più giovane tenta di fare appiglio a razionalità e buon senso pur senza mai venirne a capo. Nella pienezza dei sentimenti di cui narra, Falling si fa però presto - e troppo - evidenza della sola ferocia con cui la burbera figura paterna fagocita tutto il resto, inclusa gran parte del racconto. Il film di Mortensen, in questo senso, resta un po’ vittima di sé stesso, a tratti incapace di conciliare contenuto e narrazione, di tenere testa a una sceneggiatura eccessiva e verbosa, incline a farsi – in più di un caso - mera girandola di improperi e aggressività (come la parte centrale, in cui tutto il flusso narrativo tende a girare un po’ a vuoto e attorno all’alto tasso di causticità).
Lo scambio padre-figlio (e resto della famiglia) diventa così fulcro di scontri tutti segnati da un relazionarsi tanto disfunzionale da sfociare a volte in un tono quasi caricaturale, ossessivo, pletorico. Eccessi e ridondanze tendono in buona parte a bilanciarsi solo nel finale in cui distacco e separazione fanno viaggiare il film verso la propria e naturale catarsi. Profondamente sentito ma non del tutto funzionale in termini di equilibrio narrativo, il precipitare emotivo e decadenza umana (Falling) di Mortensen lascia addosso e dentro tutto l’amaro di quei rapporti costruiti all’interno dei confini dell’incomunicabilità e incapaci di liberarsene, di fuggire oltre, verso quell’orizzonte di amore incondizionato che ogni rapporto genitore figlio (almeno una volta nella vita) meriterebbe di sperimentare. Falling, dal canto suo, secerne il malessere di un’esistenza intaccata dal ricordo duro, privo di empatia, di un uomo auto-condannatosi alla solitudine (ideale e reale) della sua intera vita.