Fahrenheit 11/9, il lato oscuro della Democrazia attraverso il genio di Moore
Michael Moore è nuovamente arrabbiato, anzi, è più furioso che mai! L’ultima opera del regista di Flint, nel Michigan, inizia il giorno delle elezioni presidenziali americane, l’ 8 novembre 2016. Le prime immagini mostrano i volti degli euforici sostenitori di Hillary Clinton mentre sono in trepidante attesa di vedere la loro candidata dichiarata formalmente Presidente, e passano poi alla presentazione di diverse clip di vari politici e celebrità che affermano con tutto il cuore che Donald Trump non vincerà mai e poi mai! E invece… E invece: “Come cazzo è successo?”
Già, come è potuto accadere che un miliardario megalomane e misogino sia riuscito a diventare l’uomo più potente del mondo? Beh, in Fahrenheit 11/9 si troverà la risposta a questo dilemma, e non sarà una risposta così scontata.
Moore, usando la storia dell'ascesa di Trump, documenta in realtà i fallimenti, le debolezze, le crepe e i difetti della democrazia a stelle e strisce. Per il filmmaker, la vicenda di Trump non rappresenta infatti la semplice soluzione di una crisi passeggera in un società che ha permesso a un narcisista di arrivare al potere, ma è il risultato decennale di un sistema marcio e implacabile, dove le colpe dell’attuale situazione politica sono da dividere in parti uguali tra Democratici e Repubblicani. Durante i 120 minuti di proiezione, oltre a scoprire alcune ghiotte rivelazioni riguardanti il 45° Presidente degli Usa, gli spettatori potranno comprendere la complessa rete di macchinazioni politiche, abusi di potere e disastri istituzionali che hanno reso possibile il trionfo di Donald Trump.
Il premio Oscar per il documentario Bowling for Columbine punta il dito contro chi ha ingannato gli elettori, maltrattato i poveri e fatto prosperare la corruzione: in poche parole un chiaro, potente e contemporaneo j’accuse verso coloro che hanno steso il red carpet all’arrivo alla Casa Bianca di un uomo intollerante e potenzialmente pericoloso.
Attraverso il suo sguardo sarcastico, ironico e provocatorio, Michael Moore non fa sconti a nessuno, perché non considera Trump la causa di una democrazia malata, ma semplicemente il sintomo. Ecco, quindi, che i dardi avvelenati vengono lanciati in ogni direzione, che sia quella di Bill Clinton, della famiglia Bush, di Barack Obama o di Trump e il suo entourage poco importa. A rimanere illesi da questa gragnola di colpi restano solo gli elettori di qualsiasi schieramento, da Moore mai giudicati ma anzi guardati con estrema benevolenza: sì, quei tanti uomini e donne traditi dalle promesse non mantenute dai loro beniamini politici. Moore, con un’accuratezza che ha del maniacale, mette dunque in luce le cause della vittoria di Trump, che proprio all’interno di quel diffuso malcontento trova terreno fertile per seminare il suo campo di raccolta, e lo fa senza nascondere la propria indole egocentrica né celando le sue malefatte nell’ombra, no, lui prende le luci della ribalta e sale sul palcoscenico a viso scoperto!
Ma Moore non ha voglia di lasciare troppo spazio al Presidente, e allora lo mette da parte per un po’, dedicandosi, in un crescendo drammatico, a raccontare dello scandalo delle acque di Flint, dello sciopero degli insegnanti in Virginia e della sparatoria in un liceo della Florida. Ma il magnate di New York torna all’improvviso in una delle scene più perturbanti della ‘pellicola’: la sovrapposizione della voce di Trump a delle immagini d’epoca di un discorso di Hitler. Il puzzle è ormai ricomposto, e il regista che esordì nel 1989 con Roger & Me sembra volerci dire che i sistemi di potere dipendono da una platea a tratti compiacente, a volte compromessa, più spesso passiva e distratta. Il messaggio giunge forte: non bisogna rassegnarsi o affidarsi alla speranza, ma ognuno deve sentirsi partecipe di ciò che gli accade intorno.
Forse, Fahrenheit 11/9 (grazie a Lucky Red nelle sale come evento speciale dal 22 al 24 ottobre) è il film più agghiacciante e cupo di Moore, anche se numerosi siparietti divertenti riescono a rompere la tensione del pubblico, certo è che quest’opera merita di essere vista e rivista, perché mai come ora l’America sembra così vicina...