Edhel: quando la crescita non è un conflitto tra realtà e fantasia

Edhel appartiene alla stretta cerchia dei film italiani che hanno il coraggio di raccontare una storia diversa dalle altre, e che ha l'ambizione di affrontare il tema della crescita da un'angolazione meno esplorata, mescolando atmosfere contemporanea a temi antichissimi. Edhel è una bambina che nasconde costantemente le proprie orecchie, non perché questa siano mostruose, ma perché con il loro aspetto a punta ricordano gli elfi del folklore inglese.

Questo spunto narrativo diventa molto efficace nel momento in cui la percezione di chi vede il film va in una direzione completamente diversa rispetto alla percezione di chi è dentro il film. Mentre gli altri personaggi (e la stessa Edhel) vedono questa caratteristica come una deformità a cui porre rimedio per permettere alla ragazzina di essere felice, chi assiste al film invece scorge in modo inequivocabile un tratto unico e irripetibile, quasi magico. Per questa ragione, quella che avrebbe potuto essere una “semplice” storia di bullismo arriva al cuore del problema di crescere con la consapevolezza della propria unicità. Di fronte a questo dilemma universale che riguarda tutti si aprono solitamente due strade: la via del conformismo e la via della ribellione. Non si può dire quale delle due sia più facile, e quale delle due richieda più coraggio, perché in entrambi i casi c'è un prezzo molto alto da pagare. L'aspetto che viene rivendicato con forza in questa pellicola è che la scelta dovrebbe spettare proprio a colei che avrà l'onere di pagare questo prezzo. Ed è proprio questo che gli altri personaggi non riescono a comprendere, o che affrontano con quella superficialità tipica degli adulti che hanno dimenticato cosa vuol dire essere bambini. 

Uno dei pregi del film sta nel non ricercare una psicologia nelle parole di Edhel, ma nel presentare la protagonista nell'azione e nelle conseguenze delle proprie azioni. In fondo è proprio in questo il punto centrale del passaggio dall'infanzia all'adolescenza. Lo stile narrativo, curato molto anche dal punto di vista della fotografia, è quello di una favola (tenendo ben presente che le favole sono una materia molto seria), sospesa tra realtà, desiderio di fuga nel fantastico e contemplazione di una possibilità di confronto tra due mondi che per noi contemporanei non si possono incontrare.

Benché un finale con una voce fuori campo non sia del tutto funzionale a una conclusione anche solo parzialmente magica, si ha la sensazone che Marco Renda sia un regista da tenere d'occho nel prossimo futuro.