Don Chisciotte, ovvero Terry Gilliam, l'incallito sognatore.

“Ci abbiamo lavorato così tanto che l’idea di finire davvero le riprese di questo film “clandestino” è quasi surreale. Qualsiasi persona di buon senso ci avrebbe rinunciato anni fa, ma a volte, i sognatori incalliti ce la fanno”.

I sognatori incalliti ce la fanno”, affermazione di Terry Gilliam che è il paradigma di L’uomo che uccise Don Chisciotte, non solo perché la storia della sua genesi è di per se un sogno lungo e faticoso, a tratti un incubo, ora finalmente realizzato, tant’è che ancor prima della sua uscita aveva già i contorni della leggenda (da cui anche un documentario Lost in La Mancha uscito nel 2002, che racconta per l’appunto del fallimento produttivo del film), ma anche e soprattutto perché, ve lo diciamo subito, in tutto il lungo e bellissimo film del visionario regista inglese, la materia dei sogni, per dirla alla Shakespeare, permea magistralmente l’opera grazie ad un raffinato quanto elaborato gioco di alternanze narrative che in alcuni momenti è pura poesia.

Gilliam ricorre all’espediente del film nel film, espediente pericolosissimo se non si è capaci di dominare la sceneggiatura con maestria, e, in una sorta di personalissimo 8 e ½, racconta la storia di un cinico affermato regista pubblicitario che si ritrova di fronte alle sue origini di giovane regista di belle e poetiche speranze, impegnato a girare le gesta di Don Chisciotte in uno sperduto paesino dell’entroterra spagnolo dove coinvolgerà la popolazione del luogo causando, inconsciamente, tragiche ripercussioni.

Sono gli abitanti del paese - emblematicamente chiamato "Los Sueños", interpellati ad interpretare i ruoli di Don Chishotte e Dulcinea, un vecchio ciabattino ed una giovane cameriera di un bar – a rimanere irretiti dal fascino dei personaggi e ammaliati da quel sogno che è il Cinema, a pagarne più caramente le conseguenze, non riuscendo più a liberarsi dalle trame di quella esperienza immaginifica.

Proprio a Jacqui/Dulcinea (Olga Kurylenko) farà dire: “Una ragazza che serviva in un bar non può tornare indietro dopo aver recitato in un film”.  Frase fondamentale, che introduce un altro degli argomenti del film che è costituito da una riflessione sull’arte cinematografica, sulla sua magnificenza ma anche sull’effimero che essa rappresenta: fabbrica di sogni ma anche di grandi aspettative deluse. E qui, il sogno di tutti i Don Chisciotte del mondo, si annacqua, anzi, si inquina, nelle rigide e fredde regole del business, rappresentate dal produttore a cui dà forma e sostanza Stellan Skarsgard o dall’emergente magnate russo (Jordi Mollà). Il sogno di Don Chisciotte si infrange contro i mulini a vento delle logiche produttive, ben più potenti e spietati dei draghi partoriti dalla mente del condottiero creato da Miguel de Cervantes. Sorte, che stava per capitare anche a questo film.

E sarebbe stato un gran peccato! Perché avremmo perso un’altra grande prova del regista di Brazil e La Leggenda del Re Pescatore. Avremmo perso momenti di grande lirismo come le immagini sovrapposte del vecchio film con il Don Chisciotte di oggi al momento dell’incontro tra il regista e il suo vecchio attore, momenti di  grande tecnica di ripresa come i  totali corali con tanti personaggi, scenografie sontuose e coloratissime fotografate dal bravissimo Nicola Pecorini, scene concitate e ricche di azione; il tutto condito dalla visionarietà di uno dei registi più peculiari della nostra generazione. E ci saremmo anche persi il confronto professionale tra un grande attore affermato e un “non attore” che affida la sua interpretazione all’estrema naturalezza che promana dalla sua incerta fisicità. Parliamo di Jonathan Pryce nei panni del calzolaio/Don Chisciotte e di Adam Driver, il regista disilluso. Tra i due, la chimica funziona, fino a far fondere i due attori / personaggi, in un finale emblematico quanto allegorico.