Dio è donna e si chiama Petrunya – E se Dio non fosse un uomo, ma una donna?
Macedonia, 2018. Petrunya ha trentadue anni, una “inutile” laurea in storia, e non ha né un’occupazione né un marito. In quanto zitella sovrappeso e disoccupata, e dunque considerata un quasi “rifiuto” societario, la giovane donna subisce pesanti attacchi anche dalla madre che vede in lei una figlia forse non “all’altezza”, mentre si raccomanda di far andar bene quel colloquio di lavoro ottenuto a fatica che le potrebbe dare finalmente ciò che manca, ovvero un’occupazione. Ma anche il colloquio va male, e il presunto datore di lavoro non perde occasione per sminuirla e denigrarla su più fronti - “sei senza esperienza, e pure brutta”. Dopo l’ennesima “disfatta” e sulla via di casa, Petrunya si ritrova però nel bel mezzo di una cerimonia religiosa da sempre riservata a soli uomini. Una croce di legno viene gettata nel fiume e una volta recuperata dovrebbe garantire un anno di felicità e prosperità a colui che se ne è impossessato. In una folla concitata di uomini che nuotano invano in cerca della croce, Petrunya si tuffa senza remore e conquista in un attimo il sacro oggetto. Ma gli uomini inferociti le intimano di restituire loro ciò che lei ha “rubato”. Inizierà così per Petrunya un’odissea umana e sociale di presunta colpevolezza, di accanimento della società tutta nei confronti di una donna che ha (solo) avuto l’ardire di competere tra uomini.
Donne in un mondo di uomini
Premiato all’ultimo festival di Berlino e presentato in anteprima al Festival di Torino 2019, Dio è donna e si chiama Petrunya prende spunto da un fatto realmente accaduto (nel 2014 nella cittadina macedone di Štip) per far luce sulla pesante discriminazione che ancora oggi pesa in certi contesti (e su più fronti) sul sesso femminile.
Espressione di una femminilità in qualche modo disfatta e (secondo i canoni e soprattutto i pregiudizi) non all’altezza, Petrunya e il suo gesto di sfida rappresentano un’istintiva ribellione a una discriminazione che passa per consuetudine e “tradizione” e viene poi accettata come legge. Arrestata senza aver commesso alcun reato e solo in virtù di una tradizione infranta, Petrunya è vittima sacrificale di una società patriarcale che ancora oggi non riconosce alla donna gli stessi diritti assicurati all’uomo, e che trova nell’aspetto fisico e nelle scelte compiute sempre terreno fertile per critiche e limitazioni.
Petrunya (nell’interpretazione della bravissima Zorica Nusheva, occhi neri penetranti e determinati) rivendica però il suo libero diritto di avere ciò che si è guadagnata, ma il suo essere presunta pecora travestita da lupo suscita l’ira di molti, specie della mandria di uomini che non tollera e non accetta interferenze al proprio insindacabile predominio sessuale. E in una società povera, senza lavoro, messa in ginocchio dalla criminalità e dagli scontri di genere (anche la giornalista e il suo cameraman sono ai ferri corti), il gesto di Petrunya sposta l’attenzione dai problemi reali a quelli “concettuali” divenendo un caso da prima pagina dove anche la giornalista assegnata si riconosce e specchia nella dinamica di una femminilità pienamente mortificata e rinnegata.
E se Dio (invece che uomo) fosse Donna? Ribaltando il “pregiudizio” secondo cui Dio non potrebbe essere altri che uomo, Dio è donna e si chiama Petrunya rilancia il dibattito sociale su tradizioni, culture e religioni che travestono la discriminazione rendendola di fatto abitudine, regola e talvolta anche legge. Scardinando il paradosso attraverso la parabola della protagonista, il film della regista macedone Teona Strugar Mitevska solleva una grossa critica legata all’indottrinamento religioso che vede la donna sempre (e da sempre) costola o mera appendice della figura maschile.