Diktatorship – Fallo e basta! La dittatura del maschio alfa italiano e non solo

Gustav Hofer e Luca Ragazzi (già autori di piccoli interessanti gioielli come Italy love it or leave it), da oltre dieci anni coppia di fatto e artistica tornano con Diktatorship al loro stile casalingo-documentaristico a interrogarsi sulle grandi questioni societarie che affliggono il nostro Paese e non solo.

Partendo come di consueto da una banale osservazione della realtà (Luca sorseggia il caffè e aspetta di essere servito e riverito senza rendersi conto di avere un atteggiamento filo-maschilista) e all’interno di uno stile che è ancora una volta quello piacevole e leggero della coppia che osserva e si confronta costruttivamente sulle dinamiche del mondo, i due documentaristi affrontano stavolta il tema di una società ancora incredibilmente fallico-riferita (Salvini, Donald Trump) dove la misoginia non è altro che una forma leggermente più accentuata di un approccio maschile e maschilista alla realtà, apparentemente inculcato nella nostra sfera cognitiva sin dai primissimi momenti di vita. Perché se è vero che una neonata in culla al parco riceverà tutti complimenti del tipo “Com’è carina, sorridente, dolce…” (ovvero ciò che ci si aspetta normalmente dalla vita di una donna, che sia di bella presenza, sorridente e possibilmente accondiscendente nei confronti dell’uomo e della società in generale, lo diceva anche Fitzgerald ne Il grande Gatsby, dopotutto), un bambino vestito “a maschio” otterrà invece apprezzamenti del tipo “Com’è forte, di carattere, sembra un torello” (alludendo al fatto che da “brav’ uomo” e possibilmente maschio alfa, quello che ci si aspetta da lui sono prestanza, autorevolezza e il tipico approccio dell’uomo che non deve chiedere mai).

Attraverso un giro di voci che parte da Roma ma poi si muove a Venezia, Padova, Barcellona, e che gira alla ricerca di interlocutori ferrati in materia di sessi e sesso (sociologi e studiosi a vario titolo, scrittori come Michela Murgia, ma anche grandi testimoni della vita reale come Rocco Siffredi), i due autori vanno come al solito alla ricerca delle fila della loro tesi, per tentare di comprendere come sia possibile che ancora oggi si accetti la dittatura maschile quale modello strutturale in una società. E sommando le informazioni e i punti di vista alla fine viene fuori che si tratta di una tara culturale davvero molto radicata che, di base, vuole l’uomo sempre dominante e la donna sottomessa, in una pericolosa ottica di squilibrio che anche linguisticamente associa sempre l’uomo a terminologie positive ed elogiative mentre accosta spesso la donna a termini molto meno lusinghieri, nel solito parallelismo sessista che passa anche dall’evidente contrasto tra latin lover/poco di buono e similari.

Se un uomo è intelligente è un genio, se una donna è intelligente è complicata. La scrittrice Michela Murgia confessa di aver appreso questa controversa verità andando in analisi, e obiettivamente si tratta di una verità assai illuminante che sottende come le qualità migliori siano sempre tutte delegate all’uomo (brillante, intelligente, acuto), e che quando invece le stesse doti (ben)pensanti vengono spostate sulla donna assumono subito una caratterizzazione negativa  (cervellotica, complicata, strana). Di contro, a una donna si accordano invece qualità positive quando si fa riferimento a una sua mascolinizzazione, del tipo “donna con le palle”. D’altro canto, anche la questione ‘fisiologica’ del testosterone che vorrebbe l’uomo più violento e aggressivo per un fatto semplicemente di natura e ormonale, viene di fatto screditata da un professore americano che indica come in realtà la componente del testosterone esiste sì ma viene comunque applicata alla gerarchia, motivo per cui l’uomo può prendersela magari con la donna a casa, che ritiene inferiore e sottomessa ma non con il suo capo (che pure magari odia e disprezza) che è più in alto nella scala gerarchica.

E dunque, “donne, è arrivato l’arrotino” pare che sia ancora una realtà culturale presente e lungi dall’estinguersi, un concetto che vede la donna naturalmente investita del ruolo di vestale, quale supporto e mezzo per i fini maschili e ben più di rado come essere indipendente e autonomo con la propria identità e voglia di realizzazione. Un quadro piuttosto amaro e demoralizzante e che delinea con estrema lucidità come l’Italia (ma non solo) – di fatto - non sia un paese per donne, né tantomeno un paese per le minoranze in generale, e nulla cambierà finché il valore del rispetto non riuscirà ad assumere una propria centralità, una rilevanza prioritaria, scalzando definitivamente un retaggio da legge della giungla, così come la centralità, tutt’oggi ancora incrollabile, del fallo maschile, una centralità dalla quale noi stesse donne fatichiamo spesso ad uscire.