Diabolik dei Manetti Bros. e lo sguardo “diabolico” verso un tempo che non c’è più

Fine anni ’60. Il temibile e spietato Diabolik (Luca Marinelli), appare e scompare tra botole e sotterfugi, quasi fosse un’ombra, mettendo a segno colpi su colpi e rompendo la quiete dell’immaginaria città di Clerville, sempre a bordo della sua inseparabile e fiammante Jaguar E-type. Estremamente accorto e solitario, almeno nella misteriosa dimensione della sua attività criminale, Diabolik si lascerà però attirare dal luccichio sfavillante di un preziosissimo anello rosa, di proprietà della bellissima ereditiera Eva Kant (Miriam Leone), giunta da poco in città. Tra Diabolik e l’anello si frapporranno così la seduzione della misteriosa Eva, e i piani sempre più incalzanti dell’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea), più deciso che mai a catturare l’abilissimo ladro. A vincere stavolta sarà la giustizia o la criminalità? O forse l’amore?

Ri-adattamento cinematografico (il primo è a opera di Mario Bava del 1968) del celebre personaggio dei fumetti creato da Angela e Luciana Giussani nel 1962, - e tratto nello specifico da L'arresto di Diabolik, terzo albo della prima serie a fumetti di Diabolik, e primo numero della serie in cui compare il personaggio di Eva Kant che da allora divenne l'inseparabile compagna del protagonista - il film dei fratelli Manetti è un’opera che recupera appieno l’aspetto retrò del personaggio e di quel mondo anni ’60 ormai dimenticato, operando altresì anche nel rispetto filologico dell’opera primigenia. Perché se nell’adattamento di Bava l’uso di un linguaggio pop, dinamico, in una confezione addirittura kitsch, era contemporaneo al tempo della narrazione, a oggi il progetto dei Manetti ha dovuto, per forza di cose, colmare un gap visivo-esistenziale e spazio temporale tra il personaggio e le sue origini cartacee.

Per questo motivo, il Diabolik dei fratelli romani appare come un film algido, statico, sospeso in un tempo fumettistico che non assomiglia per nulla al nostro ma che, di contro, parla un linguaggio molto universale, fatto di mistero e seduzione ma anche di fiducia e rapporti umani. Senza contare che in questa loro ultima opera, i Manetti effettuano anche un ulteriore salto carpiato con il personaggio di Eva Kant. Bellissima e sexy compagna dell’uomo di potere, qui Eva diventa più che mai icona femminile e femminista ante litteram, capace di sedurre con il suo fascino ma decisa a farlo secondo i propri tempi e modi. In barba al me-too e allo stereotipo di donna-zainetto, la Eva Kant di Miriam Leone è donna che sa sedurre ma anche difendersi, sa decidere se e quando essere compagna, e anche e soprattutto come essere “moglie”. Eppure, tra questi personaggi così volitivi non manca un certo e magnetico romanticismo che sembra quasi rimandare alla bellezza delle pagine del fumetto vero e proprio, alla suggestione estetica degli albi, a un mondo analogico fatto di sguardi e sensazioni più profonde che libere, più sussurrate che manifeste. A fare poi da perno tra il mondo criminale e quello sentimentale c’è la figura del laconico ispettore Ginko interpretato da Valerio Mastandrea (qui forse non nella sua migliore interpretazione, ma comunque in un ruolo “calzante”), che muove passi astuti al fine di catturare il suo “nemico”, ma si fa poi valere per la capacità di carpirne il pensiero, l’essenza, la natura umana. Dunque, un film che opera in maniera più profonda, aderendo alla natura originaria del prodotto, e cercando di universalizzare lo sguardo di un’opera curiosamente molto maschile, seppur originata da menti prettamente femminili (quella di due altolocate sorelle milanesi degli anni ’60).

Un film, quello dei Manetti, indolente e “pensoso”, che si sottrae alla sua componente puramente dinamica (forse quello che in molti si aspettavano e oramai si aspettano da un film che ha per protagonista un anti-eroe del fumetto), per farsi qualcosa di più profondo, rarefatto, in qualche modo autoriale, che fugge al suo tempo presente per recuperare con nostalgia e sensibilità un passato che non esiste più, una profondità che forse abbiamo perso, confermata anche dalla difficoltà diffusa di valutare quest’opera come qualcosa di volutamente diverso (e non erroneamente diverso).

Qui i Manetti, a differenza di altri loro film più trascinanti e pop, puntano molto in alto sfidando l’immaginario collettivo, e il risultato è un’opera sicuramente divisiva, che piacerà a pochi - perché di fatto non sembra figlia dei nostri tempi - ma che ha molto da dire, del nostro passato e sul nostro presente, e a cui non mancano di certo una sventagliata di qualità tecniche e artistiche (degni di menzione oltre alle prove dei tre protagonisti anche i due brani inediti da solista di Manuel Agnelli realizzati appositamente per il film).

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