Detours: fuga dal cinema narrativo grazie alla droga del Darknet
Per un film che ha l’ambizione di parlare di panorami urbani, la scelta delle prime immagini è di grande forza. Non sono rappresentate strade, ma la rappresentazione di strade tramite la visuale fissa di Google Maps. Quindi momenti più o meno privati fermati per sempre con la pretesa di rappresentare la vivacità di uno spazio pubblico. Lo spacciatore moderno non ha margini di errore, deve sapere con precisione dove lasciare il proprio carico secondo le indicazioni della propria clientela. Per questo lo spazio virtuale diventa la preparazione per lo spazio reale, e da questo punto di vista il lavoro dello spacciatore diventa simile a quello del regista, nella ricerca della location precisa per la sua messa in scena tossica.
Non si pensi di trovare in questo film una linea narrativa vera e propria, perché in Detours non ci sono personaggi veri e propri, a parte lo sfuggente “tesoriere” con il suo carico di paradisi artificiali. Il personaggio è la stessa città con i suoi luoghi apparentemente sempre uguali, eppure sempre irragiungibili nella loro unicità temporale. È come se la regista volesse sfidare il pubblico a ripensare la città proprio attraverso le sue ombre umane sempre spaventosamente minuscole, le cui voci sono indistinte, spesso incomprensibili. Minuscole figure afone che si muovono nella fredda architettura brutalista di Mosca senza pretesa alcuna, se non quella di vivere nel proprio mistero. Eppure neppure l’architettura moscovita è protagonista, circondata e quasi minacciata da una natura che si rifiuta di cedere il passo all’opera artificiale dell’uomo. Le svolte evocate dal titolo del film sembrano marcare quasi un disinteresse da parte delle regista nel seguire il protagonista. Non un disinteresse programmatico: è come se l’autrice scegliesse di farsi incantare da altro, dalla vita nelle sue qualità più indecifrabili ed elusive.
Per essere un’opera cinematografica basata sulla ripresa a macchina fissa, Detours ha un ritmo inaspettato nel raccontare squarci di vita che non sono fatti per dare risposte, ma per lasciare insorgere un numero ancora maggiore di domande. In fondo, Detours è una meditazione sulla natura stessa del cinema, che è come guardare una partita di pallavolo attraverso una grata chiusa a chiave.