Curtiz: su Netflix la storia del controverso regista di Casablanca

Prodotto da Netflix, e, dunque, fruibile solo sull’omonima piattaforma in streaming, Curtiz racconta la storia del controverso e per certi versi misterioso regista di uno dei film più famosi delle storia del cinema, Casablanca.

Michael Curtiz, nasce a Budapest nel 1986 per poi emigrare, all’età di quarant’anni in America diventando uno dei più grandi registi di Hollywood.

Il film, prodotto in Ungheria, con regista ungherese (Tamás Topolánszky) ed attori ungheresi  (Ferenc Engyel nei panni di Curtiz), parte dall’inizio della lavorazione di Casablanca per parlarci della personalità del regista ungherese e di tutte le sue molteplici sfaccettature, dei molti grigi che sembrano attraversare la vita del regista. Ed in un bianco e nero molto laccato è la prima scena come il resto del film.

Siamo nello studio di Jack Warner, il produttore, ed attorno alla sua scrivania ci sono il produttore esecutivo, un funzionario del governo americano e, per l’appunto, Michael Curtiz. Ciò di cui si discute è di quanto e come il nuovo film che si sta per realizzare dovrà o potrà essere organico e funzionale alle sorti degli Stati Uniti, appena entrati in guerra a seguito dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. Il film si dipana da questa scena in poi nel costante conflitto tra le ragioni produttive, quelle artistiche e quella della ragion politica. E, in un’operazione molto ben riuscita di trasposizione dei diversi tavoli, le dinamiche dei massimi sistemi si traducono e sviluppano nei conflitti intimi del personaggio principale che trovano a loro volta sponda nella finzione di ciò che si sta raccontando. Il transfert Curtiz/Rick Bogart è inevitabile (e forse anche sperato nello spettatore). La scelta del finale del film – a lungo dibattuta tra le anime creative della troupe – sembra orientata dalla presa di coscienza di Curtiz di una umanità fino ad allora compressa  dall’innato cinismo dell’uomo che ne ha viste e vissute tante. L’arrivo inaspettato della figlia, la malattia dell’ex moglie, l’attore tedesco che si ribella al sillogismo tedesco uguale nazista, l’impossibilità di far arrivare in America anche la sorella (che verrà poi deportata ad Auschwitz); gli eventi personali vengono calati nello sviluppo della trama e si fondono con quelli dei personaggi del film trovando, comunemente, la loro soluzione nei due finali, di realtà e finzione, che scorrono insieme su un unico schermo. Un gioco, dunque, di grande rappresentazione fotografato con arditi movimenti di macchina e un senso dello spazio che sembra inglobare i piccoli personaggi ripresi da lontano, così come la storia e i suoi tragici eventi fa con l’umanità.

Film, dunque, ben pensato e ben realizzato che, come tutte le opere sul cinema, stimola soprattutto gli appetiti dei cinefili anche se le due star del film di cui si racconta la realizzazione  (e cioè Bogart e la Bergman, nei confronti dei quali Curtiz non sembra nutrire particolare stima) sono sempre ripresi sfocati o in lontananza, quasi per non distogliere la nostra attenzione dal dramma del personaggio principale.