Charlie Says, la Manson Family e le sue 'ordinarie' ragazze
“Sono il diavolo... e vengo a fare il lavoro del diavolo”, queste si narra siano le parole ascoltate da Sharon Tate, attrice e moglie del regista Roman Polanski, prima di venire pugnalata per ben 16 volte. Ma chi fu a infierire sul corpo di quella giovane donna di 26 anni incinta all’ottavo mese? E, soprattutto, perché tanta violenza? La Tate fu assassinata nella villa di Los Angeles, presa in affitto insieme al marito, nella notte tra l’otto e il nove agosto 1969, e non morì da sola. Wojciech Frykowski, sceneggiatore e attore, Jay Sebring, parrucchiere di molte celebrità dell’epoca, Abigail Folger, attivista per i diritti civili nonché figlia del ricco imprenditore del caffè Folger e Steven Parent, conoscente del custode della casa, persero infatti anche loro la vita durante quella nottata da incubo consumatasi al civico 10050 di Cielo Drive, sulle colline di Bel-Air. Nessuna delle vittime vide il volto della mente criminale che ideò quello scempio, già, e per un semplice motivo, il mandante non era lì: Charles Manson, dalla sua family considerato la reincarnazione di Gesù Cristo e al contempo di Satana, si trovava presso lo Spahn Ranch - luogo dove risiedeva insieme ai suoi adepti - comodamente in attesa che i suoi ordini venissero eseguiti da Charles "Tex" Watson, Susan Atkins, Patricia Krenwinkel e Linda Kasabian.
In Charlie Says, la filmmaker Mary Harron - Ho sparato a Andy Warhol (1996), American Psycho (2000), La scandalosa vita di Bettie Page (2005) e The Moth Diaries (2011) - si addentra nella psiche del leader criminale attraverso gli occhi di Karlene Faith (Merritt Wever), insegnante presso il reparto femminile del carcere californiano, e i ricordi di Leslie ‘Lulu’ Van Houten (Hanna Murray), Patricia ‘Katie’ Krenwinkel (Sosie Bacon) e Susan ‘Sadie’Atkins (Marianne Rendon), le tre ragazze appartenenti alla setta di Manson, autrici di alcuni efferati delitti, condannate prima alla sedia elettrica e poi all’ergastolo a seguito dell’abolizione della pena di morte nello Stato della California. A 50 anni di distanza dal terribile massacro di Bel-Air, la figura di Manson continua a suscitare fascinazione e repulsione quasi in egual misura, ed è forse proprio questo uno dei motivi per cui sono state numerose le opere cinematografiche a lui dedicate. Eppure, nonostante i tanti film che ripercorrono l’esistenza di ‘Charlie’, questo lungometraggio offre agli spettatori un ottimo spunto di riflessione: com’è stato possibile che un uomo dall’ego smisurato, in preda a deliri mistici e guidato da mero spirito di vendetta sia riuscito a plagiare la mente di ragazze, tutto sommato, ‘ordinarie’?
Tra orge a base di sesso, Lsd a piacimento, droghe varie, letture collettive della Bibbia e canzoni strimpellate con vecchie chitarre, la Manson family crebbe di giorno in giorno, attirando nella tela del ragno facili prede che in breve tempo si sarebbero trasformate in ‘incoscienti’ assassini. La Harron conduce il pubblico nell’io più profondo di Leslie, dove le nebbie inizieranno finalmente a diradarsi lasciando così il posto a una nuova consapevolezza, una presa di coscienza tardiva che per lei risulterà più penosa del carcere a vita. Siamo a fine anni ‘60, periodo d’oro del “flower power” e della controcultura hippy, ma la comunità di Manson nulla ebbe a che vedere con quell’idea di non violenza propria dei cosiddetti ‘figli dei fiori’. In un vortice di follia e annullamento della volontà, i seguaci del guru senz’arte né parte si mossero come un piccolo esercito di burattini, apparentemente senza fili, al grido: “Charlie dice...”.
Ma cosa diceva loro? La regista canadese sottolinea a più riprese le farneticazioni di Manson, qui interpretato da Matt Smith, e la sua assurda teoria dell’Helter Skelter, nome tratto da un brano dei Beatles, che prevedeva una prossima guerra apocalittica originata dalle tensioni tra bianchi e neri con il conseguente sterminio della ‘razza’ bianca, ad esclusione dei componenti della family. Il finale di tale strampalata congettura prefigurava che, una volta ottenuto il comando, rendendosi conto di essere incapaci di governare il mondo, i neri avrebbero offerto a Charlie il potere. Ed è a causa di questa visione malata di Manson che si realizzò l’orrore di Cielo Drive, o almeno è ciò che il leader fece credere ai suoi adepti, perché se gli autori di quella barbarie erano convinti che le loro azioni sarebbero servite a far ricadere la colpa sui neri americani, la realtà era invece un’altra: l’appartamento del massacro pare appartenesse infatti a Terry Melcher, produttore discografico, figlio di Doris Day, che si era rifiutato di scritturare Manson come musicista per la Columbia Productions… la vendetta fu dunque servita sulle note distorte di astio e invidia sociale.
Se il maggior disagio degli spettatori starà nell’ osservare il lavaggio del cervello fatto a ragazze ordinarie, beh, non c’è da preoccuparsi, perché a placare quell’attimo di smarrimento ci penserà la solita erronea ma rassicurante vocina interiore, quella che con forza rimbomba nella testa di ognuno di noi: “No, a me non sarebbe mai capitato”.