Cetto c’è, senzadubbiamente – Delude il terzo capitolo del celebre “politicante” qualunquista di Antonio Albanese
Dieci anni dopo la sua elezione (senzadubbiamente pilotata) a sindaco di Marina di Sopra ritroviamo Cetto La Qualunque rintanato all’estero, in Germania, tinto di un biondo ossigenato alla Trump, oramai lontano dalla politica del suo Paese, e apparentemente felice della nuova vita, anche se il suo business delle pizzerie va a gonfie vele (la mafia è marchio di qualità) ma ha qualche “sbavatura” fiscale, i suoceri nazisti lo trattano con il piglio candido delle SS e la figliola “arianissima” avuta dalla giovane e bella compagna tedesca non fa che piangere a dirotto al sol sentir la voce paterna. Ma l’Italia è un Paese “depilato” e quindi la filosofia del più pilu pe’ tutti sa oramai di passato remoto.
Poi però la notizia della cara zia in fin di vita costringerà Cetto a fare le valigie e tornare nel Belpaese, e una volta giunto al capezzale dell’anziana donna l’ex politico riceverà parola di un segreto fino a quel momento taciuto. Lui, Cetto, sarebbe figlio di un principe, discendente dei Borboni, e dunque nobilissimo di sangue blu. Una notizia bomba che in breve tempo si diffonderà a macchia d’olio e cavalcherà la marea di una rivoluzione, di un’idea avanguardista pur nel suo essere un disperato ritorno al passato. La democrazia (destra, sinistra, sopra, sotto) ha infatti fallito ed è quindi tempo di tornare a una Monarchia, di cui Cetto potrebbe essere (senzadubbiamente) Re indiscusso. Ma la vita regale operosamente indicata e allestita dal suo braccio destro Venanzio (un impettito Gianfelice Imparato) non è tutta rose e fiori, e ha regole da rispettare che la filosofia anarchica di Cetto La Qualunque non riesce più di tanto ad abbracciare. Tra una ex moglie andata a seconde nozze con Dio, una nuova ex compagna assetata di vendetta, e l’Infanta di Portogallo da sposare contro il proprio piacere e volere, Cetto La Qualunque vivrà a sue spese e sulla propria pelle il progetto ardito e quanto mai bizzarro di una nuova sedicente Monarchia.
A dieci anni di distanza da Qualunquemente (titolo seguito poi da Tutto tutto, niente niente), Antonio Albanese torna con il terzo capitolo di una trilogia che vede protagonista la sua maschera comica di maggior successo, ovvero Cetto La Qualunque, e riapre il vaso di pandora di una politica nostrana che invece di andare avanti continua a tornare inesorabilmente indietro. Perché nell’intuizione di Cetto c’è, senzadubbiamente (scritto dallo stesso Albanese con Piero Guerrera e diretto da Giulio Manfredonia) di riportare in auge una monarchia posticcia e falsa sin dalle premesse, il film di Manfredonia si gioca la carta dello scontento popolare, della frustrazione politica che non sa più come e dove andare a parare. Ed ecco dunque un ritorno forzato al governo di uno solo, plausibilmente re delle due Calabrie, che dovrebbe “restaurare” il Paese, e salvarlo dall’abisso di un vano tentativo di emancipazione.
Una qualche intuizione che sfiora la nostra attualità ma ne resta immancabilmente scalzata, superata, e soprattutto, si mostra incapace di muovere la satira a un livello contemporaneo funzionale, incapace di far sorridere di fronte alla realtà sempre più drammatica di un Paese fondamentalmente alla deriva. E allora forse non è solo e soltanto il piglio stantio e obsoleto di un personaggio nato in un’epoca e nell’arco di uno sketch del “qualunquismo” che non riesce più a stare al passo con i tempi e con il tempismo filmico, ma si tratta anche delle difficoltà sempre più evidenti di ridere del nostro presente, di sorridere di fronte al “magna magna” diffuso, di empatizzare con un personaggio che incarnando la nostra italianità più becera cerca (invano) di redimere il nostro presente attraverso la satira. Ma non è più possibile. Non ora, e non così. E quello che resta è una canzonatura che mangia e affoga sé stessa.
E mentre Venezia si allaga delle sue stesse acque, Roma lentamente muore tra i rifiuti e il degrado urbano e sociale, la reiterazione del “qualunquemente” e del raggiro nonché del “puttanesimo” selvaggio diventa un’eco drammatica della nostra storia moderna, che non è però più in grado di suggerire o indurre alcuna teoria o riflessione (in quanto portavoce di una storia già ampiamente sorpassata), ma resta piuttosto solo la terribile e raggelante maschera di un satiro malevolo e inerme, proprio alla stessa stregua del nostro beneamato Paese oggi.