Cannes 2017: tra parabola sociale e psichedelia, Good Time è un film che trova nell’eterogeneità della struttura la sua ‘marcia in più’

Constantine detto Connie (Robert Pattinson) e Nikolas sono fratelli. Il primo ha fatto delle rapine il proprio mezzo di sussistenza e vorrebbe condividere l’attività con il fratello. Ma il fratello Nikolas soffre di autismo, e quelle scorribande a perdifiato per guadagnarsi da vivere senza finire al ‘gabbio’ gli provocano numerosi accessi di panico. Dopo l’ultima rapina in banca qualcosa va storto e Nikolas si ritrova in carcere. Inizierà a quel punto l’Odissea del fratello Connie che farà carte false pur di liberare il fratello e riportarlo al proprio fianco.

I fratelli Ben e Joshua Safdie, newyorkesi di nascita già noti nei circuiti festivalieri (transitati al Tribeca e due volte al festival di Venezia) ma mai approdati a un concorso principale, debuttano a Cannes 2017 con Good Time, complessa parabola psichedelica ambientata per le strade di New York dove il percorso di due fratelli uniti ma ‘diversi’ si concretizzerà nella lezione della Vita. Dentro un film che potrebbe essere stato diretto da Refn ma che poi ricorda da vicino anche il Taxi Driver di Scorsese, in un tripudio di luci al neon e musica elettronica, i fratelli Safdie mescolano le problematiche ‘sociali’ (la vita di strada e i suoi rischi, la condizione di un disturbo mentale che non può essere in alcun modo ignorata) a un ritmo denso, incalzante, dove regia, montaggio (esemplare) e tappeto sonoro conferiscono una caratterizzazione davvero ‘memorabile’ al film. Robert Pattinson in un ruolo che sembra cucito addosso a lui si divincola in una ostile notte newyorkese tra fughe rutilanti, incursioni tra ospedali e luna park, un’instabile amante occasionale (Jennifer Jason Leigh), incontri improbabili e racconti lisergici intrisi di un fiume di conversazioni infarcite di fucked e shit. Grandi trovate registiche, camera fissa in spalla con inquadrature fisse sui protagonisti, e la capacità di adattare perfettamente la forma ai contenuti, muta il paradosso di questo Good Time in una corsa tragica e oniricamente reale nello spaccato di due vite abbandonate a se stesse, alla mercé di una condizione dalla quale (volenti o nolenti) sarà impossibile riemergere. Il rapporto, poi, tra il fratello poco assennato ma scaltro e quello dolce ma di fatto ‘meno abile’, disvela poco a poco la dolcezza di una fratellanza che pur se vissuta ai margini esilianti della società è comunque solida, generosa, altruista, soprattutto nella sequela di decisioni sbagliate che prende. In soldoni, l’ingenuità di un’idea di condivisione affettiva che va oltre le reali possibilità concesse dalla vita.

Antieroi per eccellenza, i protagonisti di Good Time sono un po’ un inno beffardo alla vita: un saliscendi difficile e sgangherato che, nel paradosso del titolo, può regalare un ‘Good Time’ anche quando tutto intorno è nero, oppure può indicarti come ‘Good Time’ una via che all’apparenza è come una privazione estrema, ma che poi in fondo forse è davvero l’unica possibilità di salvezza.