Cannes 2017: In the Fade, Fatih Akin dirige un film ‘deflagrante’ che indaga il dolore della perdita acuito dal senso d’impotenza
Dalla luce all’oscurità nel giro di un secondo. Lo svanire di In the fade (che indica un lento ‘scolorire’, affievolirsi, e per estensione anche lo stato stesso del cadere in disgrazia) incarna una di quelle ombre che ti inghiottiscono vivo, cuore e anima, e senza possibilità di salvezza.
Quando Katja scopre di aver perso tutto ciò che per lei contava e che dava un senso ai suoi giorni, l’imboccare un vicolo cieco dove niente può salvarti sarà l’unica conseguenza possibile. L’attacco dinamitardo compiuto nella comunità turco-tedesca di Amburgo e che ha messo fine alle vite di suo marito Nuri e suo figlio Rocco porterà conseguenze incontrollabili sullo stato di cose. Prima lo scavo ossessivo in un passato già oltraggiato e che sarà ulteriormente mortificato dalla ricerca tra le mura di casa di una possibile causa/responsabilità agli eventi accaduti. Dopo, un’ulteriore morte sancita da una ‘giustizia’ parziale e dunque ingiusta che si basa su elementi processuali e non su fatti reali. Una mole troppo grande e troppo profonda di ferite da curare e che la volitiva Katja (una straordinaria Diane Kruger che si candida con questo ruolo a un plausibilissimo premio Miglior Attrice) gestirà nell’unico modo (a lei) possibile.
Fatih Akin, regista turco nato ad Amburgo, ‘colpisce’ Cannes con un’opera bomba, estrapolata direttamente dalla nostra scottante attualità di esplosioni e attentati all’ordine del giorno, di razzismo diffuso e odio ostentato nei confronti del prossimo. Con un film asciutto e centrato, sensibile e profondo, intimo e sociale, In The Fade racconta uno spaccato struggente in cui facili ideali portano a facili tragedie mentre l’impossibilità di trovare un nesso di causa/effetto genera un dolore inesplicabile, indomabile, che produce a sua volta in “chi resta” un lento morire. Diane Kruger viaggia dalla felicità ‘bianca’ dell’abito di nozze della prima scena (un matrimonio intimo e voluto) all’espressione nera e sempre più tragica di chi ha perso tutto e cerca affannosamente di trovare pace, darsi un senso. Ma un senso non c’è e l’ombra si diffonde a macchia d’olio ingollando ogni tentativo e ogni speranza, e affievolendo ogni possibilità di uscita da quel tunnel. E cosi, il tentativo vano di appellarsi a una giustizia sociale, sostenuto dall’amico avvocato Danilo, maturerà in lei una consapevolezza diversa, ufficializzata e ristorata sulle rive di un mare che le rimane unico complice, e con cui condivide i ricordi struggenti degli attimi di felicità trascorsi con i suoi cari. Incipit, lutto, elaborazione e finale - l’unico pensabile, possibile. Nei suoi tre capitoli riepilogativi (la famiglia, la giustizia, il mare), passando dalla presa di coscienza per le tese dinamiche processuali fino a chiudere con la catarsi finale, Fatih Akin cesella il suo film con perfezione chirurgica e senza indugiare su sensazionalismi o retorica alcuna, scavando invece nel drammatico complesso umano della vicenda, elaborato da un punto di vista e occhio prettamente femminili. Vittime, colpevoli, senso di colpa, rabbia, dolore della perdita, tutto si mescola allo stordimento della deflagrazione iniziale lasciando comunque viva la fiamma del dolore, e del senso di impotenza sottesi. Una bellissima regia al servizio di una storia struggente, ispirata a fatti realmente accaduti, che muta il senso di vendetta in qualcosa di più ancor più tragico, ovvero la consapevole disfatta di una donna defraudata del proprio ‘cuore’. Un lavoro mirabile valorizzato dalla grande prova della protagonista Diane Kruger. Si esce fisicamente e mentalmente ‘ammaccati’ da questo film che potrebbe essere una plausibilissima Palma d’Oro a Cannes 70.