Cannes 2017: Happy End e lo smantellamento definitivo dell’ipocrisia borghese secondo Michael Haneke
L’Happy End di Michael Haneke é un paradosso annunciato sin dal titolo. Opera che si attesta un po’ come il seguito (o meglio la controparte) ‘ideale’di Amour (Palma d’Oro a Cannes 2012, Premio Oscar come miglior film straniero nel 2013), quest’ultimo lavoro del regista austriaco Michael Haneke traccia per intero il circolo vizioso dell’infelicità che passa per la famiglia, o meglio le famiglie. “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”; un pensiero che formulò cosi lucidamente per la prima volta Lev Tolstoj, ma che non ha mai smesso di valere perché incarna una profondissima verità. Una verità alla quale Haneke aggiunge in questo suo ‘compendio di analisi sociale’ un’altra forse banale ma altrettanto importante riflessione, ovvero che i soldi non fanno la felicità, cosi come non salvano dalla desolazione, o dalla solitudine. Negli enormi spazi riccamente ammobiliati dell’aristocratica famiglia dei Laurent (ricchi imprenditori rintanati nel loro lucido mondo di Calais) sembrano infatti esserci tutti gli ’ingredienti’ classici di quel disagio esistenziale che nemmeno i mucchi di soldi, gli abiti inamidati o le posate d’argento riescono a colmare. E, anzi, pare che in fondo tutti aspirino (nessuno escluso) a essere ‘altrove’.
Solitudine, malattia, morte, e soprattutto anaffettività diffusa hanno infatti reso l’intera famiglia Laurent, e nella trasversalità delle generazioni, del tutto estranea al mondo che la circonda. Un mondo che nel tempo si è ristretto sempre di più fino a collassare su se stesso e a coincidere esattamente con l’io di ciascuno di loro. L’egoismo dunque riportato allo stato puro, alla sua essenza primigenia. Ancora una famiglia borghese vivisezionata e smantellata pezzo per pezzo, ancora un’opulenza smascherata nel grigiore della propria desolazione.
Con l’eloquenza tipica della sua regia, calata a precipizio nei malumori, nei dolori intimi e nel cinismo spesso imperante dei suoi protagonisti, Haneke prende i ritagli della vita e li trasforma in lente, dolorose sessioni di ‘realtà’. Bambini, adulti, anziani, tutti rientrano e sono accomunati nel circolo dell’infelicità. E perfino quegli elementi di solito associati a serenità apparente o mero estemporaneo escapismo qui diventano momenti di ulteriore, drammatica agonia. Come le note stonate di un karaoke ‘sgraziato’ o un sontuoso pranzo di compleanno in riva al mare con “Happy End”. Gli spazi che Haneke delinea sono enormi e vuoti, ricchi e drammaticamente asettici, e dentro quegli spazi abitano cuori sterili dove il denaro ha rimpiazzato ogni senso, sentimento, e qualsiasi linfa vitale. Sono famiglie vissute all’ordine del giorno come aziende, dove un nuovo arrivato viene annunciato ‘pubblicamente’, e dove le dipartite diventano ‘aggiustamenti’ da fare sul libro contabile.
Senz’altro meno potente dei film di Haneke a oggi più ‘alti’, Il nastro bianco e Amour in primis, Happy End non delude, in ogni caso, nella (de)costruzione puntuale del suo dramma sociale, dove la maschera classista che nasconde gli enormi scheletri di una borghesia piccola piccola viene giù poco alla volta. Degna di menzione, inoltre, l’eccellenza di un cast senza pecca alcuna che annovera tra gli altri Isabelle Huppert, Mathieu Kassovitz e Jean-Louis Trintignant.