Caffé

Rispettivamente con le fattezze di Fangsheng Lu, Dario Aita e Hichem Yacoubi, Fei si trova in Cina, Renzo in Italia e Hamed in Belgio.
Il primo manager di successo prossimo al matrimonio con la figlia del suo capo, magnate dell’industria chimica, il secondo giovane sommelier del caffè lavorante sottopagato in un bar di paese e fidanzato con Gaia, ovvero Miriam Dalmazio, il terzo fuggito dall’Iraq e proprietario di un piccolo banco dei pegni, sono i tre personaggi impegnati a combattere le proprie battaglie personali (che rappresentano, però, un conflitto più universale) e i cui destini sembrano essere legati tra loro attraverso l’elemento della già citata bevanda del titolo, prodotto apparentemente quotidiano, ma, in realtà, ricco di simbolismi e momenti importanti della nostra civiltà.

Quella bevanda che non è soltanto amara, ma anche aspra per darci la forza di lottare ogni giorno in un mondo in cui nessuno di noi ha idea di dove sta andando, sommersi dalle incertezze di questi tempi di grande trasformazione che Cristiano Bortone – autore del drammatico Rosso come il cielo (2006) e della commedia romantica 10 regole per fare innamorare (2012) – intende raccontare, appunto, nel corso della oltre ora e cinquanta di visione.

Ora e cinquanta di visione che, nel ribadire che bisogna prestare attenzione a far sì che non si spezzi il filo che sembra tenere tutto legato nella tanto fragile quanto preziosa esistenza quotidiana, ricorre ad un intreccio non distante da quelli che hanno caratterizzato determinati lavori di Alejandro G. Iñárritu, alternando tra loro le tre diverse vicende portate in scena.

Tra un sempre più precario Renzo che si lascia coinvolgere in un’azione criminale insieme ad Enrico alias Ennio Fantastichini, un Fei cui viene chiesto di occuparsi di un grave incidente negli impianti dello Yunnan, patria, appunto, della produzione del caffè, e, infine, un Hamed intento a farsi giustizia da solo dopo che, in un assalto al suo negozio durante una violenta manifestazione di protesta, gli viene rubata una antica caffettiera d’argento per lui molto importante.  

Un segmento, quest’ultimo, che richiama in un certo senso alla memoria L’odio (1995) di Mathieu Kassovitz per quanto riguarda la descrizione del delinquente coinvolto nella situazione; man mano che non mancano di essere tirati in ballo risvolti altamente drammatici e che, se da un lato qualcuno tende ad osservare in maniera discutibile che la ricchezza è sempre costruita su un abuso (“Se qualcuno ha più cose di te significa che te le ha levate”), dall’altro appare evidente che nessuno, al di fuori di Dio, può sapere dove stiamo andando.

Con la risultante di un’operazione non esente da occasionale tendenza a scadere nella fiacchezza, ma che, sufficientemente coinvolgente, riconferma le tutt’altro che disprezzabili doti bortoniane di narrazione da schermo... grazie soprattutto alla indispensabile spruzzata di poesia volta a rappresentare il maggiore punto di forza di ciò che rimarrebbe, altrimenti, un semplice esercizio di stile.