Café Society
Comunicazione di servizio: Woody Allen ha sbagliato musa. Dopo Scarlett Johansson, Cate Blanchett ed Emma Stone, il regista americano, celebre per i cast sempre impeccabili, ha puntato erroneamente sulla giovane e bella Kristen Stewart che qui, complice la sua limitata mimica facciale ben nota ai fan della Twilight saga, non riesce a scrollarsi di dosso la sua Bella, con lo sguardo da gatta morta e la tipica smorfietta della bocca. Proprio la Stewart, che aveva dato buona prova attoriale in Clouds of Sils Maria e in Still Alice, qui non regge il ruolo che le viene affidato e si appiattisce su un ventaglio di monotone espressioni, con l'aria un po' impacciata e assai poco spontanea e soprattutto con i suoi lineamenti anacronistici, poco adatti all'epoca in cui è ambientato il film.
Peccato, perché forse, invertendo i ruoli e mettendo al suo posto la fascinosa Blake Lively, relegata alla parte della moglie di seconda scelta, il film sarebbe stato ineccepibile. Café Society infatti, il modo in cui Allen lo ha scritto e diretto – per la prima volta in digitale – è davvero grazioso e si accoda al precedente gioiellino in costume che era stato Magic in the moonlight.
Brioso e frizzante, ironico e romantico, Café Society regala novantasei minuti di piacevole distrazione in cui una voce narrante racconta la vicenda di Bobby – Jesse Eisenberg che torna a lavorare con Allen dopo il mediocre To Rome with love – e della sua bizzarra famiglia ebrea composta dai genitori che litigano perennemente, dalla sorella sposata con il filosofo di turno, che incarna l'amore del regista per la materia, e dal fratello gangster che risolve i problemi a suon di proiettili e colate di cemento.
Stanco di lavorare nel Bronx, Bobby va a Los Angeles dallo zio (Steve Carrell), un famoso agente dei divi di Hollywood che lo prende sotto la sua ala e lo catapulta nel mondo dorato di star, serate danzanti e raffinati brunch. Ma chi colpisce Bobby è la segretaria dello zio, Vonnie, una che tenta di schivare tutto quello sfavillio, rifugiandosi nella semplicità del jazz e di un locale messicano.
Cantava Renato Zero, “Il triangolo no, non l'avevo considerato”: Vonnie infatti ha già qualcuno e ben presto si troverà a scegliere tra il suo amante e il giovane Bobby, pieno di vita, innamorato e pronto a fare programmi a lungo termine.
Café Society, espressione coniata agli inizi del '900 per indicare la bella gente che frequentava i rinomati café e ristoranti di New York, Londra e Parigi, è un film adorabile, perfettamente incastonato nella più tipica filmografia di Allen, con i titoli di testa accompagnati da musica briosa, il jazz sensuale e onnipresente, i costumi attentamente selezionati dalla fida collaboratrice Suzy Benzinger e la cultura ebraica, presa bonariamente in giro con spassose freddure, grazie soprattutto al personaggio della mamma di Bobby, interpretata dalla bravissima Jeannie Berlin. Un suo cavallo di battaglia? “Vivi ogni giorno come se fosse l'ultimo e prima o poi ci azzeccherai”.
Tra citazioni di pellicole dell'epoca, tra cui Woman in red con Barbara Stanwyck e Follie d'inverno (Swing time) con Ginger e Fred, location d'eccezione come il famigerato ponte bianco a Central Park, teatro di numerose commedie romantiche, e la splendida villa hollywoodiana una volta appartenuta all'attrice Dolores del Rio, la sceneggiatura si snoda in maniera accattivante, definendo con cura l'atmosfera dell'epoca e il suo vivace pot pourri di personaggi. Nessuno lasciato al caso, tutti con la loro dose di carisma e necessari a delineare il quadro generale di Bobby e Vonnie, protagonisti della storia d'amore dolce amara che è poi il fulcro del film.
La scenografia è stata affidata, per la prima volta, a Vittorio Storaro e, inutile dirlo, il risultato è sfavillante, diviso attentamente tra i colori freddi e decisi del locale newyorchese, quelli quasi accecanti di Los Angeles e l'atmosfera fumosa della casa di famiglia nel Bronx.
Spiritoso e spumeggiante: non il Woody Allen migliore, quello di Blue Jasmine o Match Point per intenderci, ma quello leggero e frizzantino del già citato Magic in the moonlight, di Irrational Man – che pure nascondeva l'amarognolo finale – o di Tutti dicono I love you, per citarne uno meno recente.
Sul finale, la macchina da presa indugia con movimenti circolari sui volti dei due giovani protagonisti, lasciando intendere che stanno facendo i conti con le loro scelte e con le strade intraprese. Forse hanno sbagliato tutto, forse hanno rinunciato al vero amore e si sono accontentati ma, come ha detto lo stesso regista, “La vita è fatta di scelte. Le cose tra Bobby e Vonnie avrebbero potuto funzionare, invece sono lì a sognarsi l'un l'altra”.