Brooklyn

Brooklyn non è la storia di un’emigrazione, è il racconto dell’emancipazione e dell’evoluzione di una donna, che, salpando dall’Irlanda verso gli Stati Uniti, crea una frattura nel suo cammino di crescita, diventando qualcosa che il paese natale non ha previsto.

Il film, candidato a tre premi oscar: miglior film, miglior attrice protagonista e migliore sceneggiatura non originale, presenta una confezione impeccabile, con attori credibili, scenografie accurate e dialoghi essenziali. 
Inciampa forse proprio in questo, raccontando l’emigrazione in modo un po’ troppo edulcorato. Si rischia di uscire dal cinema pensando che il mal di mare e un po’ di nostalgia possano essere le uniche controindicazioni.

La figura di Eilis è così predominante da fagocitare il resto. Le presta il corpo e i lineamenti da bambola di porcellana l’attrice Saoirse Ronan, che era già stata candidata all’Oscar al suo esordio, a soli tredici anni, per il ruolo interpretato in Espiazione.
Per questo, come scritto in apertura, ci troviamo di fronte alla storia di una donna e non del suo viaggio, che è solo il pretesto per farla crescere e trasformarla sotto i nostri occhi. 
Per questo poco conta Brooklyn stessa, il pranzo di natale per i poveri, il pensionato dove vive o il grande magazzino dove lavora, sono tutti strumenti per aggiungere un tassello al suo percorso che la renderà donna.

Spesso la ripresa si sofferma su di lei, per suggerirci piccole modifiche nel suo aspetto e per trasformarle in metafore di un suo stato d’animo. Un paio di occhiali, un costume da bagno, le labbra coperte di rossetto, dettagli che sono passi di un cammino verso l’età adulta, non anagrafica ma psicologica.

Questi passi, però, non inciampano mai, tutto procede con estrema coerenza, senza sbandamenti, senza errori, quasi senza umanità.
La passione non prende mai il sopravvento, i capelli non si scompigliano mai, il pianto non porta via il rimmel.

Perfino il bimbo ribelle della famiglia italiana, dopo aver esordito con frasi dirette e senza remore, finisce per essere ricondotto alla correttezza, prima scusandosi e poi quale redattore delle lettere da spedire alla fidanzata del fratello.

Non basta la morte a portare la vita in un film, serve l’umanità, serve la realtà, servono gli errori ed Eilis non ne commette, è l’eroina coerente di un mondo perfetto, patinato, con colori pastello.

Brooklyn è un film tecnicamente perfetto, curato in ogni dettaglio, ma privo di anima, incapace di trascinarci al suo interno, una prova da manuale, come il compito un po’ piatto di uno studente modello.