
Blair witch
Rispolverando nei primi anni dell’era di internet lo stratagemma cui Ruggero Deodato aveva fatto ricorso nel 1980 al fine di far passare il suo Cannibal holocaust per assemblaggio di reale materiale audiovisivo ritrovato, The Blair witch project – Il mistero della strega di Blair di Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez attirò nel 1999 non pochi spettatori in sala, illudendoli di assistere ai filmati autentici appartenuti ad un gruppo di ragazzi sterminati da una diabolica megera tra i boschi.
Un fenomeno cinematografico globale che finì per generare già l’anno successivo Il libro segreto delle streghe: Blair witch 2 di Joe Berlinger, costruito, però, come una classica pellicola dell’orrore indirizzata ai giovani e tutt’altro che affine al già accennato filone del found footage; a differenza di questo sequel che, in un terzo millennio sempre più dominato dai vari ESP e Paranormal activity, vede Myrick e Sánchez coinvolti soltanto in qualità di produttori esecutivi.
Perché, su sceneggiatura del fido Simon Barrett, è l’Adam Wingard occupatosi, tra l’altro, del non disprezzabile home invasion You’re next a trovarsi al timone di regia della quasi ora e mezza di visione che, senza perdere tempo, si riallaccia immediatamente al capostipite tirando in ballo il James alias James Allen McCune che scopriamo essere il fratello di colei che scomparve insieme a due amici nella foresta di Black Hills, nel Maryland, quando lui aveva solo quattro anni. Foresta dove, ovviamente, torna attrezzato di camera di ripresa insieme alla studentessa di cinema Lisa e ai due amici Peter e Ashley, ovvero Callie Hernandez, Brandon Scott e Corbin Reid; prima ancora che gli abitanti del luogo Lane e Talia interpretati da Wes Robinson e Valorie Curry si offrano di fargli da guida.
E, se dal primo lungometraggio vengono recuperati non solo un anello a forma di pentagramma e una collana, ma anche la lugubre abitazione abbandonata, ricostruita mattone dopo mattone sfruttando le fotografie del set originale, stavolta mancano del tutto le interviste ai residenti locali e si parla di materiale ricavato da una memory card.
Del resto, come testimoniano anche la presenza di droni e il fatto che le cassette DV siano considerate sorpassate, appare chiaro anche all’interno dello schermo che la tecnologia abbia effettuato nel frattempo notevoli progressi.
Man mano che le consuete, interminabili camminate in mezzo agli alberi accompagnano verso le manifestazioni della minacciosa presenza, tra immancabili falsi spaventi, soggettive “impazzite”, riprese notturne e disturbanti grida poste quasi sempre fuori campo.
Con la risultante di un elaborato sì tecnicamente valido, ma che, al di là della riuscita sequenza ambientata nello stretto tunnel sotterraneo – oltretutto simile a quella vista in Necropolis – La città dei morti di John Erick Dowdle – e del brivido strappato da una ferita al polpaccio caratterizzata da fuoriuscita di pus (e non solo), non si riduce ad essere altro che un molto poco fantasioso esercizio di stile in aria di operazione nostalgia.
Ma la domanda sorge spontanea: nell’epoca in cui il sottogenere dei finti documentari è decisamente inflazionato, esistono veramente i nostalgici di quello che fu uno dei più grandi bluff della Settima Arte grazie a tutta la sopra menzionata pubblicità truffaldina che ne anticipò l’uscita e che, chiaramente, in questo caso sarebbe stata inutile quanto il film stesso?