Blade Runner 2049: Cambiare per restare fedeli a se stessi

35 anni e un miracolo che il protagonista sia ancora “alive and kicking”, c’è anche Gaff in realtà, 5 anni di meno e decisamente meno scalciante.
Ma al di la di questo il nuovo Blade Runner di Villeneuve è un prodotto a se stante che ha il grande merito di sapersi riallacciare ad un discorso precedente senza esserne il sequel.
Stesso universo, stessa situazione, stessa ambientazione… problemi diversi e soprattutto protagonista diverso.
Eravamo rimasti a chiederci se Deckard fosse o meno un replicante, non sto qui ora a parlare della storia dell’origami a forma di unicorno, sappiate solo questo: la risposta non sarà in questo film.

L’atmosfera dell’opera del cineasta canadese è sublime. La scelta, come fu per il film precedente, di procedere con oggetti reali e poca CGI è vincente e ci fa immedesimare in questo mondo a “fine corsa”, che peraltro ricorda molto quello di Interstellar, ma soprattutto il tema musicale, spesso dominante, è la componente che ci trasporta dentro il film.
Questa volta la caccia ai replicanti ha un motivo ben più importante. Le cose si sono evolute da allora, la società anche, e un attrito così forte tra le due compagini era inevitabile.
Di fatto i temi sono sempre quelli enormi dell’io, del chi siamo e del nostro ruolo nella vita e nell’universo.

C’è chi non si fa domande e tira avanti cercando di vivere al meglio con quello che ha, c’è chi vuole ergersi quasi a ruolo di deus ex machina e chi vuole cambiare le cose… insomma un estratto dell’umana esistenza… anche per i replicanti.

La messa in scena del tutto viene affidata al volto minimalista dell’enfant prodige del cinema americano (non più tanto enfant e nemmeno tanto americano, visto che è canadese), Ryan Gosling, circondato da tutti i comprimari necessari all’affresco di insieme, compreso colui che crede di essere il nuovo messia della settima arte: Jared Leto. Bravo, ma non Daniel Day Lewis. Il suo personaggio, messianico come lui, è forse il più irritante mai visto. Costruito all’insegna dell’omaggio alla tradizione, i suoi occhi cibernetici ci ricordano la prematura scomparsa del precedente signore dei replicanti, si presenta e procede con un incedere che definire messicano è riduttivo.
Tutte le sue scene si dilatano come se fossimo in un differente continuum temporale, diventano talvolta quasi punitive per lo spettatore.

Il film di Villeneuve è un po’ come Leto: bellissimo, affascinante, rigoroso, ma ampollosamente lungo. L’unico male di questo nuovo Balde Runner è infatti questo: una cronica lentezza e una dilatazione dei momenti che se all’inizio può affascinare, alla fine diventa una zavorra per l’ascesa.