Beautiful Boy: ritratto amaro ed attuale della tossicodipendenza, osservato dal punto di vista di un padre e di un figlio
Presentato alla tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, Beautiful Boy è la storia vera di David e Nic Sheff (magistralmente interpretati da Steve Carell e Timothée Chalamet), un padre ed un figlio alle prese con la tossicodipendenza di quest’ultimo.
Dopo aver realizzato Alabama Monroe (candidato agli Oscar 2014 come Miglior Film Stranero), Felix Van Groeningen sceglie un’altra storia di dipendenza per il suo primo film in lingua inglese, adattando non uno ma ben due romanzi di memorie – Beautiful Boy: A Father’s Journey Through His Son’s Addiction e Tweak: Growing Up on Metamphetamines – scritti rispettivamente da David e Nic Sheff, e donando loro una veste grafica di tutto rispetto.
Beautiful Boy è un’opera tanto potente quanto amara, un’opera difficile da comprendere immediatamente, complessa come i temi di cui tratta, un’opera che va metabolizzata e scandagliata col tempo. La sensazione iniziale non è infatti quella di trasporto, non si viene paradossalmente portati ad entrare in contatto con quanto avviene sullo schermo, se ne rimane fuori quali semplici spettatori, ma attenzione è solo una falsa impressione. L’emozione arriva subito dopo, appena si spengono le luci della sala, arriva tutta insieme come un fiume in piena. Ed il colpo è bello pesante.
Bravo a gestire la portata di ciò che poteva facilmente scadere nel sentimentalismo più scontato e banale, il regista e sceneggiatore (aiutato dal contributo di Luke Davies, candidato agli Oscar per la sceneggiatura di Lion) mette insieme i tasselli che compongono la storia in maniera personale, giocando molto con flashback e flashforward, spesso anche difficili da inserire nella linea temporale, ed alternando momenti dedicati esclusivamente ad uno o all’altro personaggio, così da permettere ad ognuno di avere un proprio spazio in cui esprimersi e permettere allo stesso tempo allo spettatore di avvicinarvisi in qualche modo.
Seppur inizialmente possa sembrarlo, Beautiful Boy non è solo un film sul rapporto tra un padre ed un figlio, sebbene l’argomento risulti fondamentale e ben approfondito nel corso della narrazione, quanto soprattutto un film sulla dipendenza, sul significato che assume all’interno di un nucleo famigliare, sulle conseguenze che può avere a livello fisico e psicologico per chiunque vi entri in contatto, sull’estrema difficoltà (o forse impossibilità) di uscirne. Le descrizioni dei metodi utilizzati e di ciò che comportano sono dettagliate, a tratti disturbanti; l’occhio della macchina da presa si muove impassibile e sta addosso ai protagonisti, non risparmiando nemmeno una lacrima nascosta, un sospiro inudibile. Ed è così che questo calvario di emozioni troppo a lungo trattenuto esplode alla fine. Non a caso sono rarissimi i momenti di vera e propria esplosione, forse in un paio di scene, che fanno solo percepire la punta dell’iceberg messa in campo.
La critica che viene mossa alla società in generale è evidente, ben prima dei titoli di coda in cui viene indicata la percentuale di morti per tossicodipendenza negli Stati Uniti oggi. Ed è un dato impressionante. Beautiful Boy non vuole commuovere quanto piuttosto smuovere le coscienze, gettare luce sui diversi lati della medaglia.
Steve Carell è un mostro di bravura nel tratteggiare un uomo spezzato in due, incapace di risolvere la terribile situazione che gli si è presentata dinanzi ma altrettanto determinato a non mollare, anche a costo di rischiare di perdere se stesso e tutti coloro che ama. E se Timothée Chalamet conferma ancora le sue doti istrioniche, Maura Tierney si merita un’annotazione a parte, fosse solo per quella toccante scena dell’inseguimento. Nel complesso è anche l’incredibile sintonia tra i membri del cast a dare tono ed intensità alla storia.
Splendida la colonna sonora, dosata nel suo utilizzo e bilanciata in modo da dare risalto a precisi momenti senza mai esagerarne l’effetto.