Barriere

Working Class Hero?

Barriere è un continuo gettare sassi, anzi macigni, in una palude di sentimenti impossibili che ribollono sotto un cielo di magnetismo. Ma, far increspare le acque torbide della vita e generare una perturbazione è sempre un qualcosa che può insegnarci molte cose sul comportamento delle onde e di noi stessi. Non sempre positive, certo, eppure questa è la vita.

Con dolore, amore e passione Denzel Washington cavalca la pièce teatrale di Auguste Wilson, vincitrice nel 1983 del Premio Pulitzer per la drammaturgia. L’opera, che debuttò sui palcoscenici di Broadway nel lontano 1987 con James Earl Jones nei panni del pater familias Troy Maxson, era stata già interpretata da Washington e da una stupefacente Viola Davis in un revival del 2010 che valse a entrambi un Tony Award per le loro performance.

L’attore due volte Premio Oscar per Training Day e Flight mostra di non provare paura a gettarsi nei gorghi del dramma da denuncia sociale sulle ingiustizie vissute dalle minoranze, rievocando uno stile di regia estetizzante, sebbene con una completa votazione al naturalismo più sfrenato. In Barriere vi è una continua osmosi tra vita pubblica e vita privata, con una notevole importanza conferita alla rappresentazione orale del passato dei protagonisti. Curioso che alcuni personaggi spesso rievocati, non vengano mai inquadrati rimanendo sempre sfocati fuori dal quadro.

Come nei lavori di Tennessee Williams, gli eroi si sentono degli incompresi, turbati da un prorompente senso di dovere e incongruenti desideri di libertà. Ed è proprio la voglia di affermare la propria personalità che spinge Troy Maxson a scelte egoistiche e riprovevoli. Ai figli non rimane altro che raccogliere i cocci rimasti di tutto ciò che il genitore ha mandato all’aria e decidere se perdonare o meno il padre. Solo così potranno aderire al futuro, malgrado il granitico edificio dell’ideologia sia collassato su loro stesso.    

Il fatto è che l’accurata descrizione degli usi e dei costumi tipici di questo microcosmo proletario di origine afroamericana non mostra nessuna possibile via di fuga per lo spettatore, che rischia di sentirsi prigioniero tra scenografie asfittiche e austeri giochi di luce. Prevale un verso sciolto, colloquiale, dall’impronta chiara e semplice come una sessione di blues improvvisato e arrangiato con inflessioni popolari: una chiacchiera inesauribile che, purtroppo, attorciglia con le sue spire la matura potenza delle immagini.