Austerlitz
Presentato fuori concorso alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Austerlitz è un invito alla riflessione sul turismo di massa nei luoghi dove i nazisti sterminarono un popolo. Per tutti e novantatré minuti della proiezione lo spettatore è immerso nella soggettività straniante dell’occhio meccanico di Sergej Losnitza. Qui l’effettiva geometria del lager diventa pian piano impalpabile per cedere il passo e sostituirsi quasi completamente con i corpi dei visitatori, interessati a tutto o forse a niente. La genericità anonima e indistinta di chi oggigiorno passeggia lungo i viali delimitati dell’ex campo di concentramento di Sachsenhausen rinvia, per paradosso, all’indifferenziata identità delle 41.000 vittime che lì vi trovarono la morte.
I moderni turisti di questi paesaggi della memoria, piuttosto che riflettere su ciò che è stato, dimostrano di avere uno sguardo decentrato, vivendo il passato a distanza di sicurezza. Sì, sono lì presenti, ma - allo stesso tempo - inciampano in una cinica pratica dell’oblio: sono troppo intenti a celebrare se stessi in un’ossessionante serie di selfie per provare davvero emozioni forti. E, peggio ancora, non ci trovano assolutamente niente di male nel mettersi in posa davanti ai forni crematori, sfoggiando il loro sorriso migliore. A quanto pare, il solo aver compiuto quel pellegrinaggio in calzoncini corti e t-shirt brandizzate li riconcilia passivamente con la propria coscienza. Alla fine, accartocciano e gettano via le parole della guida allo stesso modo con cui appallottolano le cartacce del pranzo al sacco ai bordi delle fosse comuni. La catarsi è compiuta, ora si può tornare a casa.
Austerlitz critica la memoria artificiale perché quella che il cineasta ucraino mostra è una società traumatizzata, che vuole ricordare ma non sa farlo senza musealizzare. Il freddo bianco e nero delle immagini unito alla dilatazione temporale delle sequenze dichiara un’esasperante oggettività della macchina da presa, che è lì a sorvegliare con fare vigile i nostri peggiori alter-ego. L’immobilità frontale dell’obiettivo è accompagnata poi dal rigore della ripetizione: cambiano i volti immortalati sebbene la fisicità materiale dei gesti sia sempre la medesima, condensata in quell’indice premuto sullo smartphone, pronto ad azionare uno scatto che finirà sui social.
La quinta opera di Losnitza può esasperare il pubblico con il realismo della sua iper-visione, eppure non può farci che bene in quanto ci pone degli interrogativi sulla degradazione della funzione testimoniale di uno spazio così simbolico. Il titolo del film rimanda all’omonimo romanzo dello scrittore tedesco W.G. Sebald (2001), incentrato sull’itinerario di ricerca che il protagonista Jacques Austerlitz compie per scoprire la verità sulle sue origini.