Appena apro gli occhi
Tunisia. Alla vigilia della primavera araba e a pochi mesi di distanza dalla Rivoluzione contro il governo di Ben Ali, ovvero nell’estate del 2010, la diciottenne Farah – brillante a scuola così come nel canto - entra a far parte come prima voce del gruppo dei Joujma.
Una piccola band di adolescenti che manifesta il proprio scontento nei confronti del governo attraverso testi militanti, dalle parole forti, scritti dal giovane Bohréne, e intrisi di amarezza e malinconia per quel vivere asfittico, all’interno dei duri limiti imposti dal regime.
Ragazza determinata e spregiudicata, Farah aderirà al gruppo con slancio e passione, ignorando le ‘prediche’ della madre che vorrebbe metterla in guardia dai pericoli di una eccessiva ‘esposizione’ all’occhio censorio del governo, e la vorrebbe vedere a breve studentessa di medicina.
Tra i primi amori, le prime passioni e le prime durissime lezioni di vita, l’intrepida ma giudiziosa diciottenne dovrà sperimentare sulla propria pelle cosa vuol dire manifestare la libertà, specie se si “vive” in territori di oppressione, sopraffazione, abusi. Nella metafora del suo canto proibito, rinnegato, e infine spezzato giace tutta l’amarezza di una poco più che bambina costretta presto a rinunciare a sé stessa e alla propria voce, pur di sopravvivere.
Accanto a lei, a sostenerla lungo il difficoltoso cammino di questa presa di coscienza ardua ma necessaria, ci sarà la presenza solida e costante di sua madre. Lei, come ogni madre che si rispetti, amica e spalla su cui piangere, sarà nonostante gli apparenti contrasti, la sola in grado di comprendere le ragioni della figlia, così come le sue passioni, i suoi vibranti desideri di adolescente.
Sensazioni ed emozioni che ritornano generazione dopo generazione, di donna in donna, e che rappresentano il confine tra il ciclo classico della vita e quello cupo di un mondo buio, incapace prima di tutto di accettare il coraggio, la diversità, la passione, specie quella della donne in tutte le sue sfaccettature.
“Appena apro gli occhi vedo un mondo di porte chiuse” intona un verso di uno dei testi più sentiti, e amati dalla band dei Joujma, un gruppo di ragazzi della tunisia pre-rivoluzione che narra il proprio disagio in musica e parole.
La regista e figlia d’arte (il padre è il grande regista Nouri Bouzid) Leyla Bouzid racconta con questa toccante e per molti versi violenta storia di formazione la sua Tunisia. La Tunisia di ieri, ma anche quella di oggi, territorio come tanti costretto a tacersi, sminuirsi e mimetizzarsi pur di sopravvivere.
Anche qui come accadeva (ad esempio) ne I gatti persiani di Bahman Ghobadi (film ambientato in un Iran per molti versi simile alla Tunisia qui descritta) il regime è narrato attraverso l’arte sotterranea, la musica suonata nel buio dei garage; quella stessa musica tramite cui i più giovani cercano di dar voce a una ribellione sonora, potente, ma pacifica.
Un racconto delicato che narra di questioni socio-politiche, ma anche di abnegazione materna, ovvero quella capacità tutta femminile di sacrificarsi per la sopravvivenza, ma anche felicità della propria prole.
Uno stile (pre)potente anche se forse ancora un po’ acerbo, che segnala comunque il nome della giovane Bouzid come una possibile futura importante voce di quei popoli ancora costretti in un contesto sociale assai antidemocratico dove (in particolare) le donne possono vivere solo rinunciando, oltre a tutto il resto, anche alla propria voce.