Anna: Quando una giornalista diventa la storia
La sola scelta del titolo del film di Charles-Olivier Michaud è di per sè potente e ricca di implicazioni. Scegliere un nome proprio, vuol dire spogliarlo da ogni qualifica professionale o relazionale, ed è come riportare un essere umano alla propria essenza più intima e profonda. È come un’affermazione in cui, anziché dire “io sono questo, io sono quello”, si dice semplicemente “io sono”. Scelta ancora più potente se il titolo del film, il nome del personaggio e il nome proprio dell’attrice (Anna Mouglalis) si sovrappongono alla perfezione.
La sovrapposizione è in effetti il tema principale di questa pellicola. Anna sta preparando un reportage su un tema particolarmente atroce come il turismo sessuale e che, allo stesso tempo, è carico di interessi economici (come è noto droga, armi e traffico di esseri umani sono le attività più crudelmente remunerative nel mondo in cui viviamo). Il taglio, fin dalle prime inquadrature, è ultra-realista, e si assiste a una serie di video interviste in cui alcune vittime del traffico provano a rievocare i propri traumi. In questi primi spezzoni si ottiene immediatamente un senso di insoddisfazione, perché c’è sempre una parte del trauma che non può essere raccontata. Non si tratta di una sorta di pudore o di paura, ma è come il riconoscimento dell’incapacità del linguaggio di veicolare in modo efficace il proprio vissuto. Nel proprio saggio scaturito dal proprio lavoro di terapeuta “Il corpo accusa il colpo”, Bessel Van der Kolk riporta proprio l’insufficienza del linguaggio, che spesso ha il solo effetto di riportare chi lo ha subito indietro, nel tempo e nello spazio fino a quel momento atroce. La parola diventa così non solo insufficiente, ma anche una tortura per chi prova a pronunciarla.
Anna è proprio uno studio sulla natura del trauma e sul modo di continuare a vivere un’esistenza a cui sia comunque possibile dare un senso al proprio vissuto. Una delle regole base del giornalismo d’inchiesta ricorda a ogni giornalista di non diventare mai la storia. Questo è particolarmente efficace nel caso in cui un giornalista si trovi a raccontare quello che accade durante una catastrofe naturale o umanitaria, ma può essere applicato a una qualunque situazione di pericolo. Raccontare non è come vivere, ed è molto diffusa, tra i giornalisti che hanno a che fare con il pericolo, la sensazione illusoria di essere invincibili. È come se la distanza tra sè e la storia creasse nella mente del reporter una specie di scudo invisibile, che naturalmente non esiste nella realtà dei fatti.
Quando Anna diventa la storia, la sua idea del mondo e la stessa struttura della realtà a cui lei è abituata finiscono in frantumi, insieme a un altro aspetto fondamentale della sua professione: la capacità di raccontare. Anna non racconta, ma ha un video che le ricorda in maniera implacabile quello che è successo, e che lei vede e rivede alla ricerca di un senso impossibile da determinare. Anche le semplici regole di causa ed effetto non sono più sufficienti, ed appaiono invece la concatenazione di una serie di eventi casuali privi di logica.
Anna è un film ricco di implicazioni e di scene anche molto forti sia dal punto di vista della violenza, che delle scelte morali, e non indica un cammino verso una forma di redenzione o di salvezza, ma verso una vita vivibile. In un certo senso si ha la sensazione che il vero film inizi dove finisce questo, dopo i titoli di coda