Amore, furti e altri guai
È un ladro? È un fallito senza futuro?
Con il volto di Sami Metwasi, si chiama Mousa ed è il protagonista del primo film di narrazione a firma del palestinese Muayad Alayan, regista, tra l’altro, del documentario Sacred stones (2012) – co-diretto da Laila Higazi – e degli short Mute (2010) e Private sun (2011).
Film che, aggiudicatosi il premio per il miglior lungometraggio presso l’AFF (Arab Film Festival) di San Francisco, mira chiaramente ad evidenziare la maniera in cui le tensioni politiche di un paese afflitto da ormai troppi anni da grosse problematiche possano influire sulle vicende personali di un individuo qualsiasi; il quale, alle prese con il sempre più disilluso padre ed intento anche a riavvicinarsi alla donna amata, sposata con un tipo ricco e piuttosto violento, si trova ad avere a che fare con il furto dell’automobile sbagliata.
Perché, quello che credeva essere un comune veicolo israeliano da rubare per rivenderne i pezzi in modo da fare soldi nel suo campo profughi impoverito, si rivela un carico di vera e propria sfortuna dal momento in cui si scopre che il bagagliaio nasconda un soldato rapito da militanti palestinesi.
Una situazione drammatica che, però, viene raccontata sullo schermo attraverso i toni leggeri della commedia, immersi in un bianco e nero che, complice probabilmente l’ambientazione piuttosto spoglia e polverosa, richiama in un certo senso alla memoria il cinema del nostro Davide Manuli, autore di Beket (2008) e La leggenda di Kaspar Hauser (2012).
Lavori a differenza di cui, però, Alayan tende a mantenersi sul piano del realismo al sapore di humour nero senza ricorrere ad eccessi di poetica grottesca, man mano che Mousa entra anche in contatto con un procuratore che gli promette di realizzare il suo sogno di emigrare in Italia per andare a giocare nella squadra di calcio della Fiorentina.
E sono le tragicomiche conseguenze dei suoi tentativi di portare a compimento le proprie imprese e di redimersi a rappresentare il maggiore motivo di interesse di oltre un’ora e mezza di gradevole visione che, ulteriormente impreziosita da un cast in parte, rischia soltanto di incappare in qualche caduta di ritmo nel corso dello svolgimento.