Almost dead

Nel mezzo di un bosco, una giovane donna si risveglia imbavagliata all’interno di un’automobile – probabilmente in seguito ad un incidente – senza ricordare la propria identità, come è arrivata lì e con accanto quello che sembrerebbe un corpo femminile senza vita; prima di riuscire a scendere dalla vettura per trovare altri individui morti tra gli alberi e vedersi costretta a risalirvi dopo aver avvistato quelle che sono indubbiamente minacciose salme camminanti.

Con la Aylin Prandi di Diaz – Don’t clean up this blood nei panni della protagonista, apre così Almost dead, che, diretto dal catanese classe 1985 Giorgio Bruno, intende in maniera evidente riallacciarsi alla tipologia di spettacolo da schermo mirata a dilatare all’intera durata del lungometraggio una unica situazione di tensione ambientata in un ristretto campo d’azione, un po’ come avvenuto in Buried – Sepolto di Rodrigo Cortés, Frozen di Adam Green e Mine di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro. Infatti, se nel primo avevamo Ryan Reynolds rinchiuso in una cassa sotto terra, nel secondo un manipolo di sciatori bloccati al freddo su una seggiovia e nel terzo un soldato immobilizzato con il piede su una mina antiuomo, qui la povera malcapitata si barrica nell’abitacolo di cui sopra unicamente fornita di una pistola e di un telefono cellulare. Telefono attraverso cui riesce ad entrare in contatto con quella che dovrebbe essere la sorella, la quale non solo le permette di scoprire che il suo nome è Hope, ma la mette anche al corrente di come hanno avuto origine gli spaventosi zombi affamati di carne umana che la stanno assediando.

Zombi che, però, sebbene un minimo di spargimento di sangue non risulti assente, non vengono utilizzati dall’autore del thriller Nero infinito per generare il classico agglomerato a base di splatter esagerato e frattaglie svolazzanti, bensì al fine di incarnare l’elemento che impedisce la fuga verso la salvezza e che contribuisce a scandire, di conseguenza, la lunga attesa verso l’epilogo. Man mano che la conversazione telefonica fornisce sempre più dettagli sull’esistenza di colei che sta lottando per la sopravvivenza e sul perché, come e quando sia caduta in quella tanto claustrofobica quanto tragica situazione, contribuendo ad alimentare la sensazione di mistero utile a catturare lo spettatore in un esperimento in fotogrammi che, non privo neppure di un certo retrogusto di critica sociale rivolta al classismo/capitalismo, si rivela una miscela al di sopra della media di survival horror, thriller psicologico e film post-apocalittico. Ulteriormente impreziosita sia dalle efficaci musiche di Massimo Filippini che dai toni cupi dispensati dalla fotografia di Angelo Stramaglia.