Al di là delle Montagne

In poco più di trent’anni la Cina è diventata la prima potenza economica al mondo: ma qual è il prezzo che il suo popolo ha dovuto pagare? Jia Zhang-Ke, considerato alla fine degli anni Novanta uno dei registi indipendenti più originali e interessanti della nuova generazione, in Al di là delle Montagne continua a raccontare in modo magistrale la rapida e veloce trasformazione del suo Paese.

Il film narra la storia - passata, presente e futura -  di una famiglia di Fenyang. Dietro una trama estremamente semplice si nasconde però un lavoro complesso avvolto da metafore. Per apprezzare il valore di Al di là delle Montagne è infatti necessario scalfire la superficie e scavare nel significato profondo di quest’opera: estrarre un diamante da un banale blocco di roccia. Attraverso il melodramma il regista cinese riesce a rappresentare le varie fasi di mutazione avvenute nel Celeste Impero, e le conseguenze del capitalismo - questa nuova religione che promette il paradiso in terra - sono il nucleo del suo intero lavoro.

Al di là delle Montagne è suddiviso in tre parti che coincidono con tre diversi formati e con altrettanti periodi storici. Nella prima, a cavallo tra il 1999 e il nuovo millennio, sotto le note di Go West dei Pet Shop Boys si assiste a un ipotetico triangolo amoroso tra la giovane Tao e i suoi amici d’infanzia  -  Zhang, un ragazzo dal promettente avvenire, e Liangzi, un coraggioso minatore  -. L’entusiasmo, la passione, l’ottimismo e la speranza  caratterizzano  questa fase iniziale dell’opera: il sogno di una nazione in via di cambiamento. Ma, in questi apparentemente insipidi personaggi, si ritrovano i dubbi e l’evoluzione dello Stato del Dragone Rosso: Zhang è la metafora del futuro dio denaro che avanza, Liangzi quella del passato schiacciato dalla futura prosperità economica. E Tao? Tao è la personificazione della Cina, in bilico tra tradizioni e modernità. Chi sceglierà tra i due pretendenti? Il matrimonio con il capitalismo sarà inevitabile.

Il 2014 apre la seconda parte del film. Funerali, malattie e disgregazione sono le allegorie scelte dal regista per riprodurre il disincanto e la delusione: finito il sogno, i cinesi si risveglieranno in un incubo. Sì, perché è vero che gli anni di neoliberismo hanno ridistribuito le ricchezze, ma verso l’alto, non verso il basso, e i danni provocati dalla corsa al libero mercato si sono fortemente ripercossi sul popolo comunista. D’altronde… far convivere il diavolo e l’acqua santa è notoriamente impresa impossibile.

Se fino a questo momento la sensazione maggiore provata dallo spettatore è stata quella dello straniamento, nell’ultima porzione di Al di là delle Montagne la diga emozionale si frantuma grazie a un cambio di registro nei dialoghi, e non tanto nei loro contenuti quanto nella loro forma. Gli scambi di battute diventano infatti più fluidi, lasciando definitivamente indietro quella sottile percezione di ideogrammi parlati. L’ambientazione è quella del 2025. Dollar (mai nome fu più appropriato), è il figlio di Tao e Zhang. Trasferitosi in tenera età con il padre in Australia, il diciassettenne ha dimenticato non soltanto la madre, ma anche la sua lingua d’origine. Jia Zhang-Ke apre così una finestra sul doloroso futuro della Cina, sottolineando la perdita dell’identità nazionale nel momento stesso in cui questa è stata inghiottita dalla globalizzazione. Ma il lucido sguardo del regista lascia spazio anche a una nuova speranza: quella del passato che non potrà mai essere del tutto cancellato. Piccole tracce di antichi ricordi torneranno sempre a galla restituendo, forse, le radici rubate da una sfrenata e illusoria corsa al successo.

Al di là delle Montagne non è né facile, né perfetto. E' un lavoro che fa riflettere e discutere, un’opera che ha diviso in due la critica. C’è chi lo ha definito un capolavoro, chi un noioso mélo. A questo punto non resta che andarlo a vedere… sempre che poi si sia pronti ad affrontare con gli amici un lungo e interessante dibattito!