A Private War, l'orrore della guerra secondo Marie Colvin
Si esce con il cuore a pezzi dalla visione di A Private War: Il famoso magone, la famosa sensazione di stomaco chiuso, sono tutte lì ad aspettare lo spettatore e a colpirlo come un pugno nello stomaco, che è l'epiteto più giusto per identificare questo film. Bellissimo perché bellissima è stata la persona di cui racconta gli ultimi anni di vita. Ma doloroso e devastante come pochi.
Il silenzio che pervadeva la sala durante la presentazione alla stampa del nuovo lavoro di Matthew Heineman, arrivato anche alla 13a edizione della Festa del Cinema di Roma dopo essere stato presentato al Toronto International Film Festival, aveva un ché di sacrale. Come sacro è il rispetto che meritano questa storia, la sua protagonista e il regista di documentari che, con questo magnifico film, ha messo in scena l'orrore vero. Non quello di mostri, streghe o pazzi di turno con ascia o motosega ma quello indicibile, fatto di bombe e mitragliatrici, di corpi smembrati e insanguinati, di cadaveri di bambini, di genitori che non sanno se i loro figli vedranno l'alba del giorno successivo e di madri che non riescono a nutrire i propri neonati perché la paura ha fatto loro andar via il latte.
Prendendo spunto dall'articolo di Marie Brenner, pubblicato sull'edizione statunitense di Vanity Fair, A private war narra le vicende dell'inviata di guerra Marie Colvin, giornalista per il Sunday Times dal 1985 al 2012. Donna di rara caparbietà ma anche minata da una grande fragilità, Marie ha documentato una serie innumerevole di guerre: dalla Cecenia al Kosovo, dallo Zimbawe allo Sri Lanka, dove nel 2001 perse l'occhio sinistro in seguito ad un'esplosione, fino alla guerra in Siria, probabilmente la peggiore degli ultimi decenni come lei stessa testimonia, nella quale trovò la morte mentre tentava di raccogliere informazioni sugli scontri in corso.
Grazie allo stile di Heineman, che nasce documentarista, in A private war il realismo è più vivido che mai e il film, in toto, sembra un vero e proprio reportage di guerra.
Il regista non solo realizza le sequenze dei bombardamenti e delle sparatorie con immensa attenzione ma riesce, svelando l'intimità della vita personale di Marie, a restituirci il ritratto di una donna drogata di conoscenza e di voglia di far conoscere, di una donna fortemente colpita nell'animo dalle brutture viste in giro per il mondo, tanto da cercare di allontanarle con l'alcool. Di una donna che desiderava essere madre ma forse questo dono non le è stato concesso per permetterle di continuare la sua ricerca di verità sul campo, e di una donna, infine, che aveva ritrovato l'amore dopo due matrimoni finiti in frantumi.
La cruda descrizione di bombardamenti e fosse comuni ma anche l'acuto ritratto di un personaggio passato alla storia.
Non nuovo all'argomento, aveva infatti già raccontato la tragedia siriana nel documentario City of Ghosts, vincitore del BAFTA, per il suo primo lungometraggio Matthew Heineman sceglie un cast di tutto rispetto composto dalla bravissima Rosamund Pike, che molto probabilmente si aggiudicherà una nuova nomination ai prossimi premi cinematografici, da Jamie Dornan, che se la cava egregiamente senza manette, cinture e frustini, e dal sempre ottimo Stanley Tucci che interpreta l'ultimo amore di Marie.
Frenetico, drammaticamente coinvolgente, introspettivo: A private war è un film in cui l'azione ha il peso maggiore e il cui montaggio contribuisce a rappresentarla nel miglior modo possibile. Il regista, dal canto suo, ha orchestrato il tutto facendo sì che la macchina da presa si intrufolasse sui furgoni, tra le macerie e nei cunicoli, per diventare parte integrante del terrore e del dolore dei personaggi. A private war, però, non è fatto di sole scene sul campo di battaglia ma si sofferma - soprattutto quando racconta gli anni che seguono il 2001 e l'incidente in Sri Lanka - sui frequenti incubi di Marie che continua a rivedere una ragazzina morta, e sul suo disturbo post-traumatico da stress che la costrinse ad un ritiro forzato in una struttura adeguata.
In questi momenti, immagini quasi subliminali compaiono sullo schermo a dare l'idea della mente sconvolta di Marie, mentre i flashback abilmente inseriti nella sceneggiatura, contribuiscono a delineare a fondo il personaggio nella sua interezza e nella sua complessità.
Alla fine, la vera Marie compare sullo schermo dando la stoccata finale: ma la sua storia non è finita il 22 Febbraio del 2012 alle sei del mattino. Il suo nome è stato ed è ancora un grande esempio.
La sua instancabile ricerca della verità - “hai un talento innato nel far interessare le persone” le dice il suo capo - e il suo dar voce alle vittime silenziose delle guerre, ne hanno fatto un'icona, un simbolo di resistenza e tenacia.
Con questo film, il regista ha voluto rendere universale la storia della giornalista americana, consentendo a chi all'epoca non aveva avuto accesso alle notizie riportate da giornali e siti stranieri, di conoscere questa donna, il suo impegno e il suo lavoro.
La tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma è stata senza dubbio quelle delle storie vere: se Green Book è stata la più bella perché carica di messaggi positivi, questa lo è perché si fa portavoce della verità, come la stessa Marie.