47 metri, tensione sul fondo
Ricordate quando, nel corso della fase conclusiva de Lo squalo di Steven Spielberg, Richard Dreyfuss si calava sott’acqua all’interno di una gabbia e veniva attaccato dal mostro marino del titolo? Autore, tra l’altro, dell’horror The other side of the door e di b-movie quali Darkhunters e Forest of the damned, circolati dalle nostre parti soltanto nel mercato dell’home video, il britannico Johannes Roberts deve aver pensato bene di sfruttare una situazione analoga per porla al centro del suo 47 metri, alla cui produzione esecutiva abbiamo l’Alexandre Aja non nuovo nell’ambito dell’eco-vengeance d’ambientazione acquatica (non a caso, ha diretto Piranha 3D).
Protagoniste del suo lungometraggio sono due sorelle che, incarnate dalla Claire Holt della serie televisiva The vampire diaries e dalla Mandy Moore di American dreamz, si avventurano durante una vacanza in Messico in un’immersione effettuata, appunto, rinchiuse all’interno di una gabbia.
E tutto filerebbe liscio come l’olio se il cavo che la tiene collegata all’imbarcazione – sulla quale, tra gli altri, si trova un capitano dalle fattezze del veterano Matthew Modine – non cedesse, scaraventando le due a quarantasette metri di profondità e trasformando quella che doveva essere una spensierata giornata di divertimento in un autentico incubo ad occhi aperti.
Perché, un po’ come accadde alla coppia che si ritrovava abbandonata in mare aperto in Open water, un po’ come succedeva alla Blake Lively isolata su uno scoglio in Paradise beach – Dentro l’incubo, l’operazione non mira altro che a sfruttare un’unica circostanza con pericolosi pescecani in agguato per estenderla alla sua totale durata. Durata di quasi un’ora e mezza e della quale vengono concessi i primi minuti alla presentazione della manciata di personaggi, per poi essere del tutto occupata dalla dura lotta per la salvezza attuata dalle ragazze, bloccate sul fondo marino e con l’aria a disposizione destinata progressivamente a scarseggiare. Aspetto, quest’ultimo, che, ancor più della famelica fauna di cui sopra, contribuisce a generare la suspense necessaria, accentuando il clima di claustrofobia che provvede, di conseguenza, a trasmettere allo spettatore una certa sensazione di soffocamento.
Mentre si parla anche di malattia da decompressione e della possibile formazione di bolle di azoto nel cervello nell’evoluzione di uno spettacolo che, a tratti a rischio di caduta nella morsa della monotonia, riesce in ogni caso a funzionare sufficientemente, grazie ad una regia piuttosto solida ed al non disprezzabile lavoro svolto su riprese subacquee e fotografia.
In sintesi, un vedibile, interessante esperimento in fotogrammi oltretutto caratterizzato da un non troppo prevedibile epilogo... e con una più o meno vaga influenza proveniente dall’All is lost – Tutto è perduto interpretato da Robert Redford.