211: La rapina che cambiò la polizia di Los Angeles
È piuttosto curioso che il titolo richiami il codice della polizia della California (il 211, per l’appunto), usato per le “normali” rapine, quando i crimini ricordati da questo film sono stati del tutto eccezionali. Infatti, la pellicola diretta da York Alec Shackleton è ispirata a una famosa rapina del 1997 che ha costretto il dipartimento di Los Angeles a rivedere le proprie procedure di fronte a crimini violenti che coinvolgono un numero molto elevato di persone. A fare la differenza furono i rapinatori: quattro ex militari addestrati e con un equipaggiamento militare che hanno portato tecniche di guerra in un pacifico contesto cittadino.
La scena di apertura ha proprio questa funzione: rappresentare quanto accade in una terra lontana, così estranea nella mente occidentale da risultare “aliena”, per poi portare gli spettatori in un ambiente quotidiano.
Uno degli aspetti più interessanti di un film che, altrimenti, avrebbe potuto essere un semplice “action movie”, è proprio nella volontà di raccontare storie “piccole”, dando personalità a chi sarà inevitabilmente coinvolto dalla rapina. Anche un osservatore distratto si rende conto che si tratta sostanzialmente di storie familiari, e in effetti i quattro rapinatori non fanno semplicemente irruzione in un contesto cittadino
più o meno assonnato, ma invadono l’intimità familiare di chi affronta con coraggio piccoli problemi quotidiani. Dunque storie di speranza, di preoccupazioni e di bullismo in un contesto che si potrebbe definire “normale”. Shackleton si prende davvero molto tempo per entrare non solo nella psicologia di questi piccoli protagonisti, ma anche e fisicamente nelle loro case, nei luoghi di lavoro, nelle scuole. È
come se volesse preparare con dovizia di particolari la scenografia ideale per una sparatoria, cosa che poi, inevitabilmente e dichiaratamente, avviene.
Con grande generosità, Nicholas Cage si presta a essere uno dei tanti tasselli della storia, e senza smanie di protagonismo cerca di rappresentare un uomo comune coinvolto da vicende straordinarie, esattamente come tutti gli altri. Dalla seconda parte del film (notevole anche per la durata “classica” di un’ora e mezza), non c’è più spazio per le parole, che lasciano il posto a esplosioni, pallottole e alle
mezze frasi necessariamente interrotte dalla violenza. La messa scena è quasi tecnica, priva di compiacimento, quasi per aumentare il contrasto tra la pace domestica della prima parte e l’assurdità del crimine della seconda.
Ogni storia viene completata, e anche se la chiusura può sembrare molto sbrigativa, in fondo si può dire che una volta terminato il conflitto non c’è proprio più niente da raccontare, se non tratteggiare in modo molto sfumato la pace ritrovata.