120 battiti al minuto: Dalla Francia un inno accorato all’amore e alla vita

Morire giovani, e senza una “vera ragione”. Veder morire i propri amici e restare impotenti di fronte all’avanzare di una malattia che non lascia speranze, che ti logora poco alla volta spezzandoti dentro nel profondo e nel fiore degli anni. La piaga dell’AIDS e dell’epidemia sviluppatasi a cavallo degli anni ’90 è la materia (ispirata a una storia vera) che fornisce al regista francese di origini marocchine Robin Campillo lo spunto per un’opera collettiva, dolorosa, che affronta un periodo sociale e un contesto ben precisi, inseriti all’interno della lotta per i diritti delle minoranze. Seguendo da vicino i dibattiti serrati, e accaniti dell’Act-Up Paris (associazione nata con l’intento di portare all’attenzione della società e del sistema ecomico-politico la piaga delle’epidemia di AIDS di quegli anni, legata in particolar modo alla poca o assente informazione nonché a un diffuso disinteresse sul tema), Campillo entra nel vivo e nel merito di una realtà sociale drammatica, toccante, s’immerge negli accesi dibattiti di un gruppo di ragazzi cui restano, in fondo, solo la speranza di combattere per i propri diritti, e un conto alla rovescia di giorni per vivere la loro - ancora - giovane vita.

144 minuti di film nei quali Campillo ricostruisce il senso di un cuore che batte, riporta in auge il significato ultimo di un’esistenza, scansionando il “tempo della vita” con una regia ‘ariosa’ che spazia dal dialogo serrato alla libera evasione (bellissime le scene di stacco  in cui corpi danzanti si muovono immersi nella musica pop anni novanta e in un pulviscolo di luci soffuse). La paura, la disperazione, la fame di vita che si sprigionano da questo gruppo di ragazzi condannati a una fine prematura si fanno dunque portavoce di un disagio profondo che non ha solo a che vedere con la realtà di una malattia incontrastabile contratta senza una vera ‘motivazione’, ma anche con il dolore di vivere in una realtà ai margini dove omosessuali, prostitute, e tossici sembrano non aver diritto a fare il loro appello, a  reclamare il loro ‘spazio’, a rivendicare il loro dolore. La mobilitazione non violenta ma di sicuro impatto (sangue finto lanciato nelle occasioni pubbliche di dibattito, incursione nelle società farmaceutiche, ma anche un fiume di slogan ‘corrosivi’) portata avanti dalla Act-Up entra così in gioco per mischiarsi al tempo di vita vero, e in veloce esaurimento, dei ragazzi che costituiscono quel movimento, e quel momento storico e sociale. La storia d’amore tra Sean e Nathan (i bravissimi Nahuel Pérez Biscayart e Arnaud Valois) segna poi il tempo zero di una lotta esterna che s’intreccia con un movimento tutto interiore, l’attivismo politico e amoroso che s’incontrano, e l’angoscia profonda di non poter vivere appieno nulla, nemmeno l’amore che ‘resta’.

L’alternanza dei tempi, dei registri e delle finestre narrative è gestita da Campillo (che scrive assieme Philippe Mangeot anche la sceneggiatura del film) con piena consapevolezza della dinamica narrativa, con la capacità di lasciare a ogni momento lo spazio necessario per aprire il proprio cuore, ‘dichiararsi’. Dichiarazioni politiche, economiche, sociali e d’amore s’intrecciano lungo la ‘via’, mentre ogni cosa trova il giusto posto in questo spaccato umano che più avanza più abbraccia la tragedia senza mai farsene – però - davvero travolgere. Ed è proprio qui che sta il primo grande pregio di 120 battiti al minuto. Il pregio di restare sobrio e smarcarsi dalla tentazione di essere ‘lacrimevole’ di fronte alla condanna umana, di fronte a un gruppo di ragazzi assetati di vita eppure tallonati dal senso di morte, di fronte ad amori che sono già passati ancora prima di nascere.

Campillo regala un’opera terza intensa e dalla tematica toccante, e la impreziosisce ulteriormente con una regia capace di  volare alto, di vedere le cose in partecipata e sempre cangiante prospettiva. Il movimento, orizzontale, trasversale, interiore, è infatti alla base di questo film notevolissimo (sorretto – a onore del vero - anche da un cast corale di primissima qualità), già premiato con il Grand Prix Speciale della giuria al Festival di Cannes 2017 e che s’appresta ora a compiere (di diritto) anche la corsa all’Oscar come Miglior Film Straniero. Dalla Francia è ancora una volta un meritatissimo: chapéu!