Venezia 76: uno sguardo sui film in concorso - giorno 8

Gradita sorpresa il lungo film portoghese in concorso, A herdade, (La tenuta), che a dispetto dei suoi 164 minuti si lascia seguire con molta attenzione. Diretto da Tiago Guedes che insieme con Frederico Serra aveva realizzato due film premiati, Coisa Ruim e Entre os dedos, il film si svolge dal 1946 ai nostri giorni descrivendo i cambiamenti della società portoghese attraverso la vicenda del proprietario terriero di una delle più grandi tenute a sud del fiume Tago. Si apre con un albero, dove il figlio reprobo del vecchio proprietario è stato appeso, e dove l’anziano ammonisce l’altro figlio, ancora bambino, che quando qualcosa finisce è definitivamente finita. Negli anni Settanta ritroviamo il figlio, ormai cresciuto, sposato e diventato il padrone della tenuta. E’ un uomo pragmatico, coraggioso e risoluto che mantiene ottime relazioni con i dipendenti. Quando il regime, dittatoriale e colonialista, chiede il suo appoggio, lui glielo nega. Dovranno sequestrare e torturare uno dei suoi uomini migliori, tacciato di attività sovversive, per fargli cambiare atteggiamento. E lui dovrà ricorrere al suocero, un generale del regime, per far liberare il suo meccanico. All’anziano ufficiale il favore sarà ricambiato durante la Rivoluzione dei Garofani: temendo rappresaglie da parte del popolo rivoluzionario, si farà ospitare dal genero in attesa di espatriare in Brasile. Negli anni Novanta, alle pressioni esercitate dal regime di Salazar e a quelle dei contadini in rivolta, si sostituisce la voracità delle banche e del mondo finanziario. Lentamente la tenuta si riduce, alcuni dipendenti si congedano e persino l’unità della sua famiglia si disgrega. Cronaca del decadimento sociale e dell’eventuale bancarotta, il film mostra in parallelo la lacerazione della famiglia. Il protagonista, uomo di bell’aspetto e padrone del luogo, ha goduto di libertà extraconiugali, che in un momento di decadenza gli si rivoltano contro: sua figlia ha una relazione col fratellastro. Scritto dal regista con Rui Cardoso Martins e Gilles Taurand, e coprodotto con la Francia, il film pecca nel finale nel voler chiudere un circolo col ritorno all’immagine iniziale dell’albero. Simbolismi a parte, e pur considerando che nella seconda parte il dramma familiare prende il sopravvento, A herdade indica un autore da tenere d’occhio.

   Per la quarta volta a Venezia il celebrato autore di una ventina di film ambientati a Marsiglia, Robert Guédighian, ha presentato un film sui guasti della crisi e sul potere disgregante dei soldi, Gloria Mundi. Sempre con gli stessi attori: dalla moglie Ariane Ascaride a Jean-Pierre Darroussin, e per questioni anagrafiche alcuni giovani, ha scritto insieme a Serge Valletti un duro pamphlet sulle miserie di una famiglia, vittima della crisi economica. Si apre col nonno, che esce di prigione dopo vent’anni, avendo ucciso qualcuno per difesa. Uomo mite, ma determinato, scrive Haiku. Vuol vedere la nipotina, nata da poco, e l’ex moglie che ha un nuovo compagno e un’altra figlia. Riunione con qualche diffidenza per l’assassino, e perché ci sono problemi economici. Va bene alla seconda figlia, sposata con un giovane affarista, un po’ drogato e fanfarone, che gestisce un paio di monti dei pegni. Non va bene alla prima, commessa in prova, e ancora meno al marito, tassista Uber, massacrato da autisti concorrenti e ricoverato in ospedale. Il compagno dell’ex moglie guida autobus cittadini: colto col telefonino acceso, è sospeso dal lavoro per otto giorni. Il nonno vuole restare solo. Alloggia in un vecchio Hotel, ma si offre volentieri per portare la nipotina sul lungomare. Poi gli eventi precipitano. Il genero, che oltre alla moglie, va da tempo a letto con la cognata, le promette la direzione di un nuovo monte dei pegni.  Tuttavia, all’inaugurazione nomina un’altra candidata provocando la furia della cognata che spiattella tutto. Lui smentisce, ma poi dice cornuto al marito dell’amante e questi gli ammolla un colpo che lo fa stramazzare. Forse è morto, ma interviene il nonno che se ne assume la responsabilità, perché sostiene che lui è già abituato alla prigione. Dramma nero di 107 minuti, girato con lo sguardo di chi vorrebbe migliorare le sorti dell’umanità, e con l’intelligenza di chi sul nero lascia affluire altri colori.

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