Venezia 76: uno sguardo sui film in concorso - giorno 7

Dopo il film d’animazione di Yonfan, un altro film cinese, questa volta con attori e in bianco e nero, è oggi in concorso alla 76° Mostra del Cinema. Lan Xin Da Ju Yuan (Saturday Fiction. Teatro Lyceum) dura 126 minuti ed è diretto da Lou Ye, autore di circa dieci lungometraggi e vincitore di premi a Cannes e a Berlino. Nel dicembre 1941 a Shanghai occupata dai giapponesi, dove sono attive concessioni francesi e inglesi, si combatte una guerra di spie. Jean Yu (Gong Li), famosa attrice di cinema e di teatro rimpatria per recitare a teatro in Saturday Fiction, diretta dal suo ex amante. Molti ritengono che sia tornata per tentare di liberare l’ex marito detenuto dai giapponesi. In realtà l’attrice è un’orfana, adottata nell’infanzia da un intellettuale americano, che anni dopo le rivelerà di lavorare per i servizi segreti statunitensi e farà di lei un agente.

   Ambientato essenzialmente nell’albergo situato nella concessione francese, nel teatro e nel vecchio Caffè, il film è estremamente movimentato. Lungo bui corridoi, nel bistrot appena rischiarato e nelle strade adiacenti i personaggi si rincorrono, si scontrano e si sparano. Non sempre lo spettatore riesce a capire chi è chi, e spesso nemmeno i personaggi lo sanno in quel mondo di traditori, di spie e di avventurieri che praticano il doppio gioco. Alla fine tutto sarà chiaro: Jean Yu sta tentando di decifrare codici segreti per conoscere i piani dell’alto Comando giapponese, incluso il prossimo attacco a Pearl Harbour. E da attrice consumata recita molte parti in commedia pur restando sempre schiva e determinata. Sceneggiato da Ma Yingli, collaboratore abituale di Lou Ye, il film è liberamente tratto da un romanzo che il regista aveva letto e apprezzato molti anni prima, La donna vestita di rugiada di Hong Ying, melodramma in un nido di spie. Nel film non si vede la città di Shanghai, considerata la più occidentale delle città cinesi, ma se ne respira la tensione, l’insicurezza e la provvisorietà in uno dei momenti più difficili della sua storia.     

   Tutt’altra lotta è quella combattuta dalla quindicenne Milla nel film d’esordio dell’australiana Shannon Murphy, che ha diretto molti lavori per la Tivù e alcuni cortometraggi. Babyteeth (Denti da latte) si apre con un’adolescente che sta andando a scuola con alcune coetanee, quando un giovane piomba tra di loro correndo e le da una spallata. Le amiche salgono sul treno, ma lei resta a terra incuriosita dall’estraneo che risulta essere un giovane sbandato, cacciato da casa, il quale sopravvive smerciando qualche dose e con piccoli furti. Si chiama Moses, e Milla decide di invitarlo nella sua casa con piscina, dal padre psichiatra e dalla bella madre psicolabile, imbottita di medicine. Rozzo, estroverso, spontaneo, Moses non è il migliore degli ospiti, per non parlare della droga. Milla, però, si trova bene con lui. E i genitori non sanno come reagire perché c’è un motivo che li trattiene: la figlia ha un tumore e i giorni contati. Quindi tergiversano, mentre Moses tenta inutilmente di tornare a casa, e Milla gli si affeziona. Alla fine decidono di ospitarlo, e il padre gli offre anche qualche medicina come surrogato della droga. Subito Milla lo accusa di volerlo drogare per mantenerlo in casa, ma presto le parti si chiariscono anche perché la vicenda sta avviandosi verso un’inevitabile conclusione. Impostato come dramma, con frequenti spunti divertenti sul comportamento dei genitori di Milla, e la regista dichiara: “Sono stata ispirata dalla sfida di armonizzare questa dualità di umorismo e dolore in ogni fotogramma del film”, Denti da latte procede per due ore snobbando il politicamente corretto e privilegiando la reiterazione alla sintesi. In ultima analisi: un debutto non bene, non male. 

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