Venezia 76: uno sguardo sui film in concorso - giorno 6
Giornata in tono minore per almeno due dei tre film in concorso alla 76° Mostra del Cinema. Delude Atom Egoyan con Guest of Honour (Ospite d’onore) che sembra uno di quei film che si girano anche quando non si ha molto da dire. Di qualcosa ovviamente si parla, del problema di una bambina che scopre la relazione del padre con la maestra di musica. Un giorno la scorge addormentata sul divano con la sigaretta accesa tra le dita. Il mozzicone cade su giornali che prendono fuoco, lei scappa e la maestra muore. Anni dopo, lei stessa maestra di musica, (Laysla de Oliveira), porta gli allievi in un tour di concerti. Per giocare un tiro all’autista del bus che la sta seccando, finge di partecipare a un triangolo con due allievi adolescenti. L’autista denuncia il fatto. Lei viene incolpata della relazione con minorenni, che tuttavia sono pronti a scagionarla, ma lei, ritenendosi colpevole della morte della maestra, decide di andare in prigione. La cosa migliore del film è il personaggio del padre (David Thewlis), pignolo ispettore sanitario, terrore di ristoranti e negozi di alimentari, il quale diventa l’ospite d’onore della festa privata di un locale che voleva far chiudere. Il film dura 104 minuti, con una narrazione tra presente e passato che dovrebbe avvolgersi di mistero e che invece procede stancamente a tentoni.
Più interessante il breve film (76 minuti) dello svedese Roy Andersson, Om det oändliga (Sull’infinito), anche se da la sensazione di essere un’aggiunta a Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza , il film che nel 2014 vinse il Leone d’oro. Assemblaggio di scene fisse con personaggi che si pongono domande sulla vita, che si scontrano o che s’incontrano senza capirsi, mettendo in evidenza, come ha dichiarato il regista, la vulnerabilità degli esseri umani. Le scene sono attentamente studiate, composte come dipinti, e ravvivate spesso da spunti ironici con personaggi che divertono malgrado o proprio a causa della loro drammaticità. Non a caso il regista ha accennato a registi quali Milos Forman e Ji?i Menzel, maestri di una comicità leggera e caustica nello stesso tempo.
Sicuramente notevole il film del praghese Václav Marhoul che alla vigilia dei sessant’anni ha diretto un lungo film (169 minuti) in 35 mm e in bianco e nero per descrivere l’ostinazione del male basandosi sul romanzo omonimo di Jerzy Kosinski, The Painted Bird (L’uccello dipinto). La vicenda è quella del bambino ebreo che durante la seconda guerra mondiale i genitori affidano a una madre adottiva per proteggerlo dalle persecuzioni razziste. Interpretato da Petr Kotlar, il giovanetto, sorpreso dalla morte della donna, lascia cadere un lume che incendia la casa di legno. Solo e senza dimora comincia a vagare per le campagne. Incontra le persone più malvage e più squilibrate che lo sfruttano e lo schiavizzano. Narrato in capitoli con i nomi delle persone che di volta in volta accolgono il bambino, si assiste alle atrocità e alle nefandezze delle quali è vittima. Non solo al trattamento brutale, ma alla morte che sfiora a più riprese. Tuttavia il bambino è forte, sopravvive alla cattività e alle torture, alla neve, alla scarsezza di cibo e alle persecuzioni, ma lui stesso è contaminato dal male in una lotta per la vita dove vinci o muori. Girato con grande maestria in un periodo di circa dieci anni, questo catalogo di atrocità ha due o tre spunti di umanità: il militare tedesco (Stellan Skarsgård) che deve eliminarlo e che lo lascia scappare; l’ufficiale sovietico che lo protegge, e infine il sacerdote cattolico (Harvey Keitel) che volendolo aiutare lo mette nelle mani di un sadico pedofilo (Julian Sands). Il titolo è tratto da un racconto di Kosinski nel quale si narra di un uccello al quale vengono dipinte le ali e lasciato libero di volare, ma una volta raggiunto lo stormo viene cacciato dagli uccelli che non lo riconoscono.
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