The Happy Prince: incontro con Rupert Everett e il suo Oscar Wilde

La fiaba Il Principe felice, scritta intorno al 1888 da Oscar Wilde, era la favola della buonanotte che tutte le sere la madre di Rupert Everett raccontava al figlio per farlo addormentare. E’ dunque da un ricordo lontano che nasce il grande amore dell’attore inglese per uno tra gli autori più ‘citati’ dei nostri giorni. L’idea di realizzare un film sugli ultimi anni di vita di Wilde ha accompagnato Everett per lungo tempo, ma le difficoltà incontrate nell’ottenere i fondi necessari a portare alla luce questo progetto furono così numerose che dalla stesura della sceneggiatura alla produzione di The Happy Prince sono trascorsi ben 9 anni. Il cast stellare – che include Emily Watson, Colin Firth, Tom Wilkinson e Colin Morgan – è senza dubbio stato fondamentale per riuscire a convincere i vari finanziatori a interessarsi all’opera di Everett, e finalmente nel 2016 le riprese ebbero inizio. L’Oscar Wilde raccontato, interpretato e scritto dall’attore britannico, qui anche al suo esordio dietro la macchina da presa, è quello povero, malato, ripudiato dalla puritana Inghilterra – che a causa della sua omosessualità lo condannò a quasi tre anni di carcere e di lavori forzati –, abbandonato dalla gran parte degli amici ed esiliato a Parigi.

Rupert Everett preferisce quindi presentare al pubblico il periodo buio dello scrittore e poeta irlandese, dipingendone un ritratto estremamente umano senza però dimenticare di mostrarne anche i lati spiacevoli. Sì, perché grazie al giusto equilibrio trovato tra il lirismo toccante dei versi decantati da Wilde e le scene che lo ritraggono grasso, invecchiato e alle prese con la sua instancabile voglia di amore e piacere carnale, il regista Everett non fa nessuno sconto al suo personaggio. Quelle che nel film vengono mirabilmente rappresentate, sono infatti le tentazioni alle quali Oscar Wilde non seppe, e non volle, mai rinunciare nell'intero corso della sua esistenza, tentazioni che lo avrebbero condotto a morire in quasi totale indigenza, ma che non gli tolsero mai quella ricchezza d’animo che faceva di lui un uomo libero. Il 49enne attore di Norwich, perfetto nei panni dello scrittore di Dublino, con la sua regia regala agli spettatori un appassionato omaggio, più che alla geniale figura d’artista, all'uomo Wilde.

Everett, a Roma sia per la presentazione del film che per ultimare le riprese della serie tratta da Il nome della rosa di Umberto Eco, in cui indosserà le vesti dell’inquisitore Bernardo Guy, così si racconta: “Recitare in due ruoli tanto diversi è stata per me una vera occasione. Perché, nonostante Oscar Wilde fosse un uomo molto religioso - ha infatti scritto pagine bellissime dedicate a Cristo -, il personaggio dell’inquisitore di Umberto Eco è decisamente più cattivo. E’ stata un’impresa davvero difficile riuscire a mettere in pratica il mio progetto su The happy prince, perché in questo momento non è per nulla facile reperire fondi per fare un film. Forse, se avessi scritto la sceneggiatura quando ero famoso sarebbe stato tutto più semplice!”. In effetti, la carriera di Rupert Everett ha avuto negli ultimi anni una vera e propria battuta d’arresto. Fattosi conoscere nel 1984 grazie al lungometraggio Another Country, che gli valse una nomination ai Premi BAFTA come Migliore Esordiente Cinematografico, Everett diventerà un’icona maschile apparendo in tutta la sua bellezza nella pubblicità del profumo Opium, di Yves Saint Laurent. Ma è la parte dell’amico gay a fianco di Julia Roberts ne Il matrimonio del mio migliore amico (1997), che gli farà scalare le vette del successo e lo consacrerà ulteriormente nell’immaginario collettivo. Dal 1999 al 2002 sarà il protagonista di 6 film, tra cui Un marito Ideale e L’importanza di chiamarsi Ernesto, entrambi tratti da commedie di Oscar Wilde. Poi, Everett verrà completamente dimenticato dalle grandi produzioni cinematografiche… chissà perché?

In realtà la risposta è abbastanza intuibile: la sua omosessualità. Ed Everett ne dà conferma: “Quando lavori e operi nel mondo del cinema, un mondo che è stato aggressivamente eterosessuale, se sei gay devi comunque imparare a negoziare. Prima o poi si finisce però sempre con lo scontrarsi con un muro di mattoni troppo forte da abbattere. Forse ora le cose non vanno più in questo modo, ma io ricordo che intorno agli anni ‘80 e ‘90 non era assolutamente facile essere gay. Pensate che in Inghilterra l’omosessualità è stata legalizzata soltanto nel 1968, e vi devo confessare che girando The happy prince ho avuto come la sensazione di rivivere le difficoltà incontrate da Oscar Wilde, ovviamente con i dovuti distinguo!”. Everett, che a seguito del suo coming out ha trovato davanti a sé una strada lastricata di ostacoli, e non soltanto dal punto di vista lavorativo, ha calorosamente espresso la sua preoccupazione e il proprio dolore verso le ingiustizie tuttora subite dai gay: “La storia di un uomo che viene distrutto soltanto perché omosessuale, come successo a Oscar Wilde, è una tragedia con la quale ancora oggi ci si può identificare. Pensiamo ad esempio come vengono trattati i gay in Russia, Giamaica, India e Cina. Ma il fatto ancor più grave è che ciò accada anche nei Paesi democratici, dove l’atteggiamento omofobo sta raggiungendo livelli estremamente preoccupanti e rischiosi. Ragazzi di 17 anni che si suicidano e città che non danno più il loro sostegno al Gay Pride – come è purtroppo avvenuto da voi a Genova –, sono atti molto allarmanti a cui tutti noi dovremmo prestare più attenzione”. E come dargli torto?

In merito a The happy prince, esso si distingue tanto per uno stile di regia particolare, l'alternarsi di scene statiche ad altre girate con la camera a mano, quanto per una fotografia che ricorda l’arte pittorica, ed Everett così spiega queste scelte: “Per ciò che riguarda i movimenti di macchina, desideravo che il film fosse una sorta di incontro tra il cinema di Luchino Visconti e le riprese fatte a circuito chiuso, nel senso che volevo qualcosa di estremamente costruito e progettato ma al contempo ci tenevo allo stile della camera a spalla. Amo i film dei fratelli Dardenne, che nei loro lavori utilizzano spesso un trucchetto: fanno sì che l’attore guardi dentro la cinepresa in modo da stabilire subito un contatto diretto con lo spettatore, ma poi la macchina da presa inizia però a seguire il personaggio fino a inquadrarlo soltanto di spalle. Confesso che in The happy prince ho pensato spesso a questo favoloso trucchetto! Per quanto invece concerne i riferimenti pittorici, devo ammettere di essermi ispirato a numerosi artisti, come ad esempio a Toulouse-Lautrec. Nel film c' è anche una forte impronta teatrale, d’altronde Wilde era principalmente un uomo di teatro”. Ma vi è un personaggio in particolare a cui Everett si è ispirato, quello di Tadzio ne La morte a Venezia. Ecco che si torna dunque alla stima nutrita dall'attore britannico nei confronti di Visconti e dell’estetica del cinema italiano, stima che lo ha portato a scegliere per il suo film due nostri costumisti: Maurizio Millenotti e Gianni Casalnuovo.

Affabile, sorridente, e nonostante gli anni sempre affascinante, Rupert Everett non si è tirato indietro alle tante richieste di essere immortalato in improvvisati selfie. Al cinema con Vision Distribution, The happy prince – prodotto anche dalla italiana Palomar – è un film interessante, ben diretto e, soprattutto, scritto e girato con amore. Bentornato, Rupert!