Stanley Tucci arriva a Roma per Final Portrait: personale omaggio all’arte imperitura di Alberto Giacometti

Vi sono interpreti che, seppure relegati a svolgere parti secondarie, grazie al loro talento riescono a rubare la scena ai colleghi protagonisti. Un esempio? Presto fatto: Stanley Tucci (New York, 1960). Il suo debutto sul grande schermo avvenne nel 1985 con il film di John Huston L’onore dei Prizzi, in cui vestiva i panni di un soldato, ma sarà nel decennio successivo che darà vita ai più svariati personaggi: dal gangster di Scappiamo col malloppo al ladro di cani di Beethoven, dall’assassino ne Il rapporto Pelican al marito traditore in L’amante in città. E nonostante il grande successo di pubblico e di critica ottenuto da Tucci nel 1996 con l’esordio alla regia in Big Night, spetterà soltanto al nuovo secolo riservargli un posto d’onore tra i grandi di Hollywood. Sì, perché è impossibile non ricordarlo a fianco di Meryl Streep ne Il diavolo veste Prada e in Julia & Julia, o nell’esilarante figura del padre di Emma Stone in Easy Girl; in quella fiammeggiante di Hunger Games, o nel ruolo del pressante avvocato de Il caso Spotlight. L’etichetta di ‘attore non protagonista’ seguirà Stanley Tucci lungo tutto l’arco della sua carriera, tant’è che ad oggi gli unici grandi riconoscimenti a lui assegnati sono due Golden Globe, entrambi per una miniserie televisiva, e una candidatura agli Oscar per essersi trasformato nello spaventoso serial killer di Amabili resti.

Instancabile lavoratore, con circa 100 film al suo attivo tra cinema e tv, Tucci ha anche trovato il tempo di dirigere cinque lungometraggi, ed è proprio in occasione dell’uscita in Italia del suo ultimo lavoro dietro la macchina da presa, Final Portrait – splendido racconto che mostra attraverso 18 giorni il complicato processo creativo dello scultore-pittore Alberto Giacometti , che abbiamo avuto il piacere di incontrarlo a Roma. Elegantissimo nel suo completo blu notte, l’attore italo-americano ha spiegato con calore che l’arte è insita nel DNA di famiglia: “Mio padre era non soltanto un insegnante d’arte, ma anche un vero e proprio artista. Quando decise di prendersi un periodo sabbatico dal lavoro ci portò tutti a vivere a Firenze per 12 mesi. A quel tempo avevo più o meno 13 anni, e in quel luogo ricco di opere meravigliose mio padre mi accompagnò a visitare ogni museo, galleria o monumento”. Sappiamo anche che mentre Tucci senior scolpiva e dipingeva, il piccolo Stanley rimaneva affascinato ad ammirarlo per lunghe ore, e fu da quell’attenta osservazione che sarebbe nata in lui la curiosità di comprendere la complessa struttura creativa che si cela dietro l’elaborazione di un’opera d’arte.

Alla luce di quanto sopra affermato, Final Portrait appare quindi come un bisogno personale del filmmaker newyorkese di origini calabresi di rendere omaggio al perfetto caos artistico di Giacometti (Svizzera, 1901-1966), personaggio visionario e solitario che una volta superata la fase surrealista si concentrerà sul dramma esistenziale dell’essere umano: “L’uomo di Giacometti è sempre a mezza via fra l’essere e il non essere”, Jean Paul Sartre. Se si terranno bene a mente le parole del filosofo Sartre, per gli spettatori sarà facile immergersi nelle suggestive atmosfere del film di Tucci, che per sua stessa ammissione ha rivelato: “Non credo nei biopic, troppo spesso sono una serie infinita di fatti intorno all’intera vita di un artista condensati in due ore. Trovo molto più interessante concentrarsi su un periodo ristretto della vita di qualcuno fino ad approfondirne la vera essenza, il dettaglio ci offre infatti un quadro più completo di quella che è stata l’esistenza di una persona”. Nel film, Tucci - qui anche sceneggiatore - si sofferma effettivamente su di un unico episodio: la realizzazione di Giacometti del ritratto di James Lord, scrittore e critico d’arte statunitense che a un anno di distanza da quella sua incredibile esperienza da modello pubblicò A Giacometti Portrait (1965).

Il libro di Lord colpì talmente Stanley Tucci che negli anni 2000 iniziò una fitta corrispondenza con l'autore per chiedergli i diritti per trarne un film, diritti che gli vennero concessi nel 2008: da allora sono trascorsi dieci anni, e finalmente il progetto è adesso divenuto realtà. Ambientato a Parigi, anche se girato principalmente a Londra - dove il cineasta-attore vive dal 2014 con i figli e la seconda moglie Felicity Blunt, agente letterario e sorella dell’attrice Emily Blunt -, Final Portrait è una raffinata opera cinematografica impreziosita dalla presenza di Geoffrey Rush, che con i suoi borbottii, improvvisi scatti d’ira e atteggiamenti infantili incarna egregiamente il grande artista svizzero. Certo, ci si domanda come mai non sia lo stesso Tucci ad interpretare Giacometti, e lui per tutta risposta afferma: “Ci ho pensato, ma alla fine mi sono convinto che il film ne avrebbe sofferto nell’insieme. E’ uno sforzo enorme quello di dirigere se stessi, perché l’attenzione si dividerebbe inevitabilmente su due fronti, penalizzando sicuramente l’intera riuscita del film. Inoltre, Geoffrey ha avuto 2 anni di tempo per fare le ricerche e documentarsi, mentre io mi occupavo di reperire i finanziamenti necessari a portare avanti il progetto. Per lui le maggiori difficoltà incontrate sono state due: sentirsi a proprio agio nel rappresentare gli eccessi di rabbia di Giacometti, e imparare a padroneggiare il pennello. Ma una volta superati questi ostacoli è stato veramente straordinario, e la sua spontaneità ha poi contribuito a rendere il personaggio ancor più veritiero. Prima di iniziare a girare abbiamo però provato in teatro, proprio come fosse una pièce teatrale!”. E a far da spalla al premio Oscar Geoffrey Rush c'è l’attore del momento: quell’Armie Hammer scelto da Luca Guadagnino per Chiamami col tuo nome.

Che Stanley Tucci sia un appassionato ammiratore della produzione di Giacometti è cosa nota, ma forse pochi sanno che con i suoi introiti è riuscito ad acquistare 3 stampe del geniale artista. Ma come? Solo delle stampe? Beh, considerando che le sculture di Alberto Giacometti sono ritenute tra le più care al mondo – la sua figura in bronzo del 1947 intitolata ‘L'Homme au doigt’ è stata venduta all’asta nel 2015 per la sorprendente cifra di 141,3 milioni di dollari –, è facile intuire che per possedere altro non gli sarebbe bastato neppure l'intero cachet guadagnato con la sua partecipazione al blockbuster Transformer. E a proposito di blockbuster, come mai Tucci, che preferisce le piccole produzioni indipendenti, ha preso parte ad alcuni film cosiddetti ‘di cassetta’?E’ vero, nonostante ami i film indipendenti ho recitato in numerosi blockbuster, d’altronde mi devo occupare dei miei cinque figli e devo ancora finire di pagare un mutuo! Comunque, anche vivere all’interno delle grandi produzioni si è rivelato divertente, oltre al fatto che si impara sempre qualcosa di nuovo. E poi si ha la possibilità di conoscere persone estremamente interessanti e simpatiche, come ad esempio fantastici colleghi o membri di troupe. Per quanto riguarda la regia è invece molto diverso, ho diretto sempre film che ho particolarmente amato e con cui avevo un forte legame”. Basti infatti pensare a Big Night, che gli ha permesso di soddisfare la sua grande passione per il cibo (Tucci ha pubblicato anche due libri di cucina), e a quest’ultimo lungometraggio che lo pone a contatto con il suo irrefrenabile e atavico amore per l’arte.

Con Final Portrait, nelle sale italiane grazie a Bim distribuzione, Stanley Tucci sembra avere preso alla lettera il motto che George Morrison, suo insegnante di recitazione, gli ripeteva come un mantra: “Bisogna sempre andare al di là di ciò che è comodo”. E ‘l’attore non protagonista per eccellenza’ così ha fatto. Il risultato? Una magnifica opera che procede in sottrazione, racchiusa in un gioco di spazi e ripetute nevrosi creative. Da non perdere.