SerieTV che passione: Sons of Anarchy
“Prometto di sostenerti e di proteggerti sempre… e di trattarti bene come il mio giubbotto e di cavalcarti come la mia Harley!”
Nulla potrebbe essere più esemplificativo di Sons, che questa frase di Opie alla moglie. Una summa delle filosofia degli appartenenti al “club”, una vera famiglia.
Sons of Anarchy è partita un po’ in sordina sia in USA che, soprattutto, in Italia (anche a causa di un’infelice programmazione), ma si è lentamente guadagnata il posto di “serie cult” tra quelle in onda.
Difficile da gestire, causa temi piuttosto forti e soprattutto una cruda violenza priva di qualsiasi mediazione, raccoglie però i consensi sia del pubblico più giovane, sia di una fascia d’età più alta. Saranno le moto (rigorosamente Harley Davidson), sarà l’incredibile realismo, ma l’appeal di questo prodotto è piuttosto trasversale.
Kurt Sutter, il creatore della serie, già padre di “The Shield” e cresciuto nell’America del New Jersey, quella sorta di landa ai limiti della metropoli più grande del mondo, che racchiude una criminalità organizzata dall’alba dei tempi. Facile quindi creare quelle trame complesse e soprattutto che coinvolgono aspetti anche innovativi (come l’IRA), in grado di dare una marcia in più –è il caso di dirlo- alla serie.
Il secondo puto di forza della serie, invece, risiede nel cast. Per il protagonista, Jax Teller, si è scelto un attore misconosciuto, ma molto carismatico, Charlie Hunnam, in grado di incarnare il tipico caucasico americano (peccato sia inglese), mentre per tutti i personaggi di contorno .che poi così di contorno non sono- si sono selezionati validissimi attori di secondo piano visti milioni di volte anche sul grande schermo. Ron Perlman, Tommy Flanagan, Mark Booner Jr. e Kim Coates, giusto per citarne alcuni, oltre all’incredibile Katey Segal (peraltro vincitrice di un Golden Globe proprio per questo ruolo), già moglie di Sutter.
Sons non è soltanto la storia di un gruppo di motociclisti che vive ai margini della legge, né l’ennesima dissertazione sulle lotte tra bande. Sons è proprio la storia di uno dei figli di questa cultura in perenne conflitto tra quello che è, quello che vorrebbe diventare e quello che gli altri si aspettano che diventi.
E’ una trama decisamente shakespeariana dove il figlio del defunto re, si ritrova principe suo malgrado, sotto il governo del patrigno reggente.
Una madre pronta a tutto ed una serie di consiglieri con le loro sordide trame. Potremmo essere nel medioevo, potremmo essere ovunque nel mondo, siamo sulle calcinate strade del sud degli Stati Uniti dove l’unica sicurezza è la propria famiglia e l’unica certezza è la vendetta.
Nelle prime puntate l’attenzione si focalizza nella presentazione dei personaggi, tutti molto complessi con le loro scelte sempre a cavallo tra un codice d’onore del tutto personale e una legalitàcostantemente sotto scacco.
Se Clay, il leader è piuttosto monocorde nella sua totale abnegazione per il club, sia Jax che Gemma sono molto più contraddittori. Il primo diviso tra l’educazione in cui è cresciuto e lo spettro del padre e la seconda tra la fedeltà incondizionata al club e l’amore per il figlio.
Nel proseguire delle stagioni, una volta delineati i vari componenti del gruppo e le persone che gli ruotano intorno, le trame si fanno decisamente più complesse. L’arrivo degli ariani a Charming da spazio per creare un confronto tra due organizzazioni speculari: idee monolitiche e un leader forte disposto a tutto.
Anche i rapporti con l’IRA, che all’inizio sembrano essere solo un escamotage per portare l’FBI sulle tracce dei Samcro, diventano, nella terza stagione, la linea narrativa portante con tanto di viaggio in Irlanda.
Nulla è mai lasciato al caso, ogni indizio disseminato qua e la, trova poi una ragione di esistere nello sviluppo della serie, questa è la vera abilità –già ampiamente dimostrata in “The Shield”- di Sutter.
Le stagioni sono 7 e forse non tutte allo livello. Sicuramente fino alla quarta siamo una spanna sopra qualsiasi altra cosa, poi c’è sempre una leggera discesa –restando sempre ad altissimi livelli- forse anche perché non sono più i temi di Piney, Opie e Clay, fino all’elegia finale, che non sarebbe mai potuta essere diversa.
Il nucleo della storia, l’amletica vicenda di Jax con il suo padre putativo, il fantasma del suo vero padre e la madre “Lady Macbeth” hanno portato avanti sette anni di vita di questo incredibile gruppo.
Kurt Sutter non è uno degli scrittori più sopraffini della serialità USA, e lo si nota in alcuni passaggi e in dialoghi a volte ripetitivi, ma è sicuramente uno dei più viscerali, uno di quelli che fanno sudare gli occhi, uno di quello che se c’è da fare una scelta dura, decisiva, non esita un attimo, e il finale della serie è l’unico possibile per chi ha realmente capito quello che cercava di fare Jax.
Jax l’antieroe che per un attimo tutti abbiamo creduto che fosse capace di osare l’impossibile e di cambiare il mondo, capace di essere quello che noi non riusciamo o non possiamo essere, ma che invece si ritrova, suo malgrado, semplice uomo.
Per tutti i curiosi che ancora si arrovellano il cervello chiedendosi come mai il club dei motociclisti si chiami Samcro, ecco svelato il mistero: Sons of Anarchy Motorcycle Club Redwood Original.
“E’ meglio bruciare che spegnersi lentamente Il Re è morto, ma non sarà dimenticato!”