Seminci – 63ª Semana Internacional de Cine de Valladolid. Day 4
In concorso alla 63 SEMINCI (Semana Internacional de Cine de Valladolid), un film che era a Locarno, Genèse (Genesi) del quarantenne canadese Philippe Lesage. Produttore, fotografo, attore, sceneggiatore e regista, col suo terzo lungometraggio rivisita problemi adolescenziali, quelli della crescita e del passaggio all’etá adulta con particolare attenzione ai primi rapporti sessuali. Protagonisti la diciottenne Charlotte (Noée Abita) e il fratellastro sedicenne Guillaume (Théodore Pellerin). La ragazza ha una relazione con un giovane studioso di astrologia, tanto assorto nei suoi studi che quando parla della loro relazione si lascia scappare che potrebbe non essere per tutta la vita. E’ soltanto una supposizione, ma Charlotte lo prende alla lettera e alla prima occasione si accompagna con un trentenne, apparentemente adulto e maturo, ma in realtá un donnaiolo sperimentato. Quando se ne rende conto torna dal primo amore, ma il loro rapporto non sará piú lo stesso. Interno di un collegio dove le camerate dei maschi sono rigidamente separate da quelle femminili, Guillaume ha un amico del cuore, taciturno ed equilibrato, al quale durante una sera di bisboccia tenta di dare un timido bacio. E`la fine di un sodalizio, che diventa ostracismo quando durante l’interrogazione dell’insegnante d’inglese il giovane esterna i suoi sentimenti. Poi un fatto del tutto casuale provoca l’allontanamento di Guillaume dal liceo.
Il film dura 130 minuti ed è costituito da due parti: lunga quella appena descritta, e breve la seconda che si svolge in un campeggio dove un dodicenne s’innamora di una coetanea, ma la fine delle vacanze li separa. Due storie quindi per descrivere il disagio adolescenziale, i sogni, le battaglie e le sconfitte dei giovani in un turbolento momento di formazione. Si direbbe un film con appendice dal valore didattico. Vanta l’apprezzabile profilo dei due fratellastri, rappresentanti della loro generazione, ma non propone nuovi punti di vista, nè soluzioni originali.
In concorso anche un film della Berlinale, Utøya 22. juli (Utøya 22. Luglio) del norvegese Erik Poppe. Formatosi in Svezia; attivo come fotografo e reporter tra Norvegia e Portogallo; inviato in Angola, Mozambico, Cambogia e Beirut, a 58 anni ha alle spalle una serie Tivú, cinque film e alcuni premi. Forse è stato il suo passato di fotografo di guerra a fargli portare sugli schermi il massacro avvenuto il 22 luglio 2011 nell’isola norvegese di Utøya dove un impresario di estrema destra di 32 anni irruppe in un campeggio della gioventú socialdemocratica e uccise 69 persone. E lo ha fatto non soltanto riferendosi ai fatti. La sparatoria duró 45 minuti e il film la dilata a 90, novanta minuti di scene di panico e di terrore dei giovani che non sanno chi sta sparando e non sanno dove nascondersi nella piccola isola. Il regista drammatizza gli eventi dopo aver incontrato alcuni sopravvissuti e inventa personaggi, testimoni della strage, quali protagonisti del dramma. Nel ruolo principale, Kaja, (Andrea Berntzen), diciotto anni, scelta come punto di riferimento che ci fa rivivere il dramma con i suoi occhi. Molti testimoni, tra i cinquecento del campeggio estivo, hanno collaborato all’elaborazione del film insieme con gli sceneggiatori Anna-Bache-Wiig e Siv Rajendram Eliasssen che hanno contribuito alla selezione dei documenti fotografici.
Utøya 22. juli apre con la notizia dell’autobomba che era scoppiata poco prima a Oslo nel quartiere del governo. Pochi nel campeggio hanno ascoltato le notizie, fa eccezione Kaja che sta cercando la sorella Emily. Poco dopo i primi spari e giovani che scappano all’impazzata. E’ l’inizio della carneficina che il regista descrive unicamente attraverso scene di terrore non mostrando mai l’assassino. Qualcuno si chiede se si tratta di un’esercitazione, o se è la polizia che sta sparando, ma le grida, le fughe e i primi feriti non lasciano dubbi. Al di lá dell’importanza della testimonianza e del ricordo, il film non aggiunge niente di nuovo a quanto riferito a suo tempo. Del dramma si conosce già il finale: resta una messinscena corretta ma prevedibile.
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