Scimmione a chi? - Ottantaquattro anni di discendenti cinematografici di King Kong
In tempi recenti abbiamo addirittura avuto modo di vederlo in azione all’interno del lungometraggio in animazione tridimensionale The LEGO Batman movie di Chris Mckay, ma, a partire dal 9 Marzo 2017, è nuovamente sui grandi schermi per occuparli con i suoi trentuno metri di altezza e le sue diecimila tonnellate di peso grazie a Kong: Skull island, diretto dal televisivo Jordan Vogt-Roberts ed ambientato su un’isola ancora sconosciuta e inesplorata che si scopre popolata da fauna di gigantesche dimensioni.
Anche se, come tutti sappiamo, con oltre duecento milioni di dollari di budget e un valido cast comprendente Jack Black, Naomi Watts e il Premio Oscar Adrien Brody, a rendere omaggio in grande stile all’ominide più grosso e famoso della storia delle immagini in movimento aveva già provveduto il neozelandese Peter Jackson quando, reduce dal premio Oscar conquistato tramite il terzo tassello della trilogia Il Signore degli Anelli, sfornò nel 2005 King Kong.
Il King Kong che, con Andy Serkis nascosto sotto il folto pelo scimmiesco aggiunto in post-produzione dopo aver recitato indossando una tuta dotata di sensori per i movimenti (la stessa usata per incarnare Gollum nella saga tolkieniana), altro non voleva essere che il fedele remake dell’omonimo ultra-classico concepito nel 1933 dai non accreditati Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack quando il primo visionò Creation, filmato realizzato dall’effettista Willis O’Brien per il concepimento di una sorta di rifacimento del muto The lost world di Harry O. Hoyt.
L’ottava meraviglia del mondo
Del resto, a convincere l’autore di Splatters – Gli schizzacervelli e Creature del cielo ad intraprendere la strada della Settima arte fu proprio quel King Kong nato da un’idea del giallista Edgar Wallace e che, avvalendosi, appunto, degli ottimi effetti speciali in stop motion di O’Brien, raccontò in bianco e nero (ma del film circola oggi anche una versione colorizzata) la vicenda dell’avventuroso produttore cinematografico senza scrupoli Carl Denham alias Robert Armstrong, approdato sull’Isola del Teschio per girare un film con protagonista la giovane disoccupata newyorkese Ann, incarnata da Fay Wray.
Isola su cui la neo attrice finisce rapita dagli indigeni del posto per essere sacrificata al dio locale, ovvero l'altissimo gorilla del titolo, che, dopo essersi rivelato immediatamente interessato alla ragazza, viene catturato e trasportato nella Grande Mela dove si ritrova esibito a pagamento come “Ottava meraviglia del mondo”; prima di riuscire a fuggire e di cominciare a seminare morte e distruzione in città, provocando oltretutto ingenti danni ad edifici, automobili e, addirittura, alla sopraelevata della metropolitana.
Fornendo – insieme alla serie di scontri con diverse creature primitive ed alla storica sequenza del confronto conclusivo con l’aviazione in cima all’altissimo grattacielo Empire State Building – la necessaria dose di alta spettacolarità posta al servizio di quello che, precursore di tutti i blockbuster a base di mostri di grosse dimensioni, non si può fare a meno di identificare in qualità di una delle più affascinanti e riuscite varianti del mito della bella e la bestia.
Variante cui, già nello stesso anno, il solo Schoedsack – nel probabile tentativo di bissarne il successo – aggiunse la continuazione Il figlio di King Kong, con Denham di ritorno sull’isola del Teschio per cercare un tesoro accompagnato, tra l’altro, dalla figlia del proprietario di un circo. Una continuazione decisamente lontana dalle vette raggiunte dal capostipite (nel quale, tra l’altro, Schoedsack e Cooper fecero anche una fugace apparizione a bordo di un biplano, come pure Jackson nel remake di cui sopra), in quanto, coinvolgendo un piccolo Kong impegnato a fronteggiare una manciata di creature per difendere l’uomo, che lo ha liberato dalle sabbie mobili, elimina l’originale look violento e quasi horror per avvicinarsi, invece, ai toni della favoletta.
I figli di King Kong
Ed era praticamente impossibile pensare che una pellicola di quel calibro non avrebbe generato imitazioni; a cominciare dal dimenticato Edo ni arawareta Kingu Kongu, che, firmato nel 1938 da Sôya Kumagai e conosciuto anche con il titolo anglofono King Kong appears in Edo, rappresentò, in pratica, il primo monster movie giapponese della storia del cinema. Perché prese sì spunto da King Kong, ma mettendo in scena lo scimmione ricorrendo ad un costume indossato dall’attore Ryunosuke Kabayama e creato dal Fuminori Oashi che si sarebbe poi dedicato anche a quello del primo Godzilla. Soltanto con un anno in anticipo rispetto alla horror comedy The gorilla di Allan Dwan che, però, potrebbe giusto lasciar avvertire qualche vaga influenza konghiana; come pure la storia del ragazzino cresciuto nella giungla da un gorilla ne Il gigante della foresta di William Berke, datato 1949.
Influenza che non lasciò certo indifferente il prolifico Sam Newfield, il quale, occupatosi nel 1944 di Nabonga, tornò un anno più tardi sull’argomento con La sfida di King Kong, in realtà estraneo al lungometraggio del 1933 in quanto il suo titolo originale è White Pongo. Con analogie che rimandano curiosamente al contemporaneo The white gorilla di Harry L. Fraser, l’odissea di una spedizione scientifica inoltratasi nella giungla africana per scovare il gorilla bianco, leggendario essere che, secondo uno scienziato, rappresenterebbe l’anello mancante dell’evoluzione umana. Odissea che, oltre allo scontro tra l’animale – interpretato dal cascatore Ray Corrigan – ed un altro pericoloso scimmione, tira in ballo il rapimento della figlia del dottore da parte di un criminale inseguito da un poliziotto in incognito.
Del resto, una contaminazione con il thriller poliziesco fu anche al centro di Gorilla in fuga, diretto da Harmon Jones nel 1954; periodo in cui erano tutt’altro che fuori moda gli scimmioni in fotogrammi, se pensiamo anche alla commedia Bela Lugosi meets a Brooklyn gorilla di William Beaudine e a The bride and the beast di Adrian Weiss (su sceneggiatura del re del trash Edward D. Wood Jr.), rispettivamente risalenti al 1952 e al 1958.
Non solo re dell’Africa
Ma, con Ernest B. Schoedsack al timone di regia, Robert Armstrong nel cast e Merian C. Cooper – affiancato dal grande John Ford – nelle vesti di produttore, il team che mise in piedi King Kong si riunì già nel 1949 per concretizzare Il re dell’Africa, aggiudicatosi il premio Oscar nella categoria relativa ai migliori effetti speciali, concepiti in stop motion dal solito O’Brien e da un esordiente Ray Harryhausen.
Praticamente, una derivazione del capolavoro degli anni Trenta rivolta per lo più al pubblico dei ragazzi, in quanto riguardante una giovane ed il suo gorilla ammaestrato Joe, con cui è cresciuta, scritturata insieme all’ominide come attrazione in un nuovo locale di Hollywood dopo essere stata scoperta da una spedizione giunta nel Continente Nero per catturare belve feroci da sfruttare, appunto, nell’atipico night club.
Con le immancabili, disastrose conseguenze; come avvenuto, inoltre, dodici anni più tardi nell’inglese Konga di John Lemont, discreto prodotto ai limiti del trash che, anche conosciuto come Kong – Il terrore di Londra, vide Michael Gough (l’Alfred dei Batman di Tim Burton e Joel Schumacher) nei panni di un dottore impegnato a sbarazzarsi di chi intralcia la sua strada ricorrendo allo scimpanzé Konga, aumentato di dimensioni grazie all’iniezione di un siero estratto da uno sconosciuto esemplare di pianta carnivora.
Anche se, escludendo l’immancabile imitazione konghiana The mighty Gorga di David L. Hewitt e il gorilla preso a terrorizzare il campo di nudisti nel bizzarro The beast that killed women di Barry Mahon, rispettivamente del 1969 e del 1965, sembra essere stato soprattutto il nipponico Ishiro Honda a dedicarsi all’enorme primate negli anni Sessanta. D’altra parte, non solo lo ha fatto scontrare nel 1962 con il lucertolone radioattivo Godzilla ne Il trionfo di King Kong, in aria di allegoria relativa ai trascorsi dissidi tra Giappone e Stati Uniti, ma lo ha addirittura posto come avversario di un suo doppio meccanico (costruito al Polo Nord dal Doctor Who!) in King Kong – Il gigante della foresta, del 1967. Un anno dopo aver dato un sequel al suo Frankenstein alla conquista della Terra attraverso Kong, uragano sulla metropli, ovvero Katango, con protagoniste due gigantesche creature dalle fattezze ominidi: Sanda e Gairah, una delle quali ribattezzata Kong, appunto, dal doppiaggio italiano. Andando in un certo senso ad affiancare altri esempi del tutto estranei alle imprese del gorillone, ma che lo richiamavano furbescamente nei titoli attribuitigli nello stivale tricolore: Gli eredi di King Kong e Distruggete Kong-La Terra è in pericolo!, sempre di Honda e in realtà appartenenti alla saga sul già menzionato Godzilla, e King Kong contro Godzilla e Kinkong-L’impero dei draghi di Noriaki Yuasa, rientranti in quella della tartaruga volante Gamera.
Il pianeta della scimmia
Il solo 1976, invece, tra la commedia a base di arti marziali King kung fu di Lance D. Hayes, la parodia al femminile Queen Kong – La regina dei gorilla di Frank Agrama e l’inguardabile Super Kong di Paul Leder (padre della Mimi Leder regista di The peacemaker e Deep impact), realizzato sullo stile dei kaiju eiga (film di mostri giapponesi), fu un anno non poco ricco di lavori cinematografici riguardanti il mostro di Schoedsack e Cooper.
In fin dei conti, fu l’anno del King Kong che, prodotto da Dino De Laurentiis per la regia di John Guillermin, valse un Premio Oscar speciale per gli effetti visivi a Carlo Rambaldi, Glen Robinson e Frank Van der Veer. Un rifacimento in cui a Skull Island approda una spedizione in cerca di petrolio sulla cui nave si è clandestinamente imbarcato il paleontologo Jack alias Jeff Bridges e sulla quale viene caricata anche la Dwan interpretata da Jessica Lange, unica sopravvissuta al naufragio di uno yacht. Un giocattolone fine a se stesso che, tra consueti cittadini schiacciati e metropolitane distrutte, appare oggi risibile a causa di alcune sovrapposizioni d’immagine rese da una tecnica ormai sorpassata, rimanendo, comunque, un prodotto godibile destinato al grande pubblico. Un giocattolone cui, dieci anni dopo, Guillermin e De Laurentiis hanno dato il più violento ma stanco e noioso sequel King Kong 2 con Linda”Terminator”Hamilton, infarcito di blandi messaggi ecologisti e anti-bellici nell’inscenare l’innamoramento del colosso nei confronti di un corrispettivo femminile.
Già nel 1977, però, un anno prima che lo spagnolo Juan Piquer Simón includesse un grosso primate tra le creature de L’incredibile viaggio nel continente perduto, rivisitazione di Viaggio al centro della Terra, Hong Kong aveva avuto modo di fornire la sua risposta al lungometraggio guillerminiano producendo Il gigante dell’Himalaya di Meng-Hwa, musicato dal nostro Ennio Morricone e riscoperto da Quentin Tarantino, il quale ne ha curata una versione integrale per la sua Rolling Thunder Pictures.
Stavolta, l’ennesimo gigante scimmiesco si chiama Utang e, apparso in un villaggio dell’Himalaya in seguito ad un violento terremoto, diventa l’obiettivo del solito impresario aguzzino che vorrebbe sfruttarlo per esibizioni in pubblico; fino al momento in cui comincia a manifestare una forte gelosia nei confronti di una ragazza selvaggia, praticamente cresciuta sotto il suo allevamento.
E, se Il grande Joe di Ron Underwood è stato nel 1998 il remake – con Bill Paxton e Charlize Theron nel cast – de Il re dell’Africa, non dimentichiamo che in The thing with two heads di Robert Lee Frost, del 1972, fa la sua apparizione un simil-Kong a due teste interpretato dall’allora giovane fx-man Rick Baker.
Come pure non dimentichiamo che, al fine di cavalcare il successo del film di Peter Jackson, la famigerata Asylum non mancò di mettere in piedi nel 2005 il suo mockbuster: King – Il re del mondo perduto di Leigh Scott, liberamente ispirato al romanzo Il mondo perduto di Arthur Conan Doyle.
L’evoluzione, quindi, non si è ancora arrestata!