Personaggi da Oscar: Alejandro González Iñárritu
Le regole della sopravvivenza
Quest’anno è tornato a casa con l’Oscar per la miglior regia, il secondo di fila.
Dopo Birdman, anche Revenant - Redivivo, infatti, è riuscito ad attirare le luci di proscenio su di sé assicurandosi ben tre statuette (regia, attore, e fotografia).
E non solo perché dopo molte congetture, gag e altrettanti pronostici, Leonardo DiCaprio è finalmente stato in grado di ‘intascare’ il tanto agognato Oscar (quello che in una vita di successi cinematografici non si era ancora - stranamente - aggiudicato), ma proprio perché questo western iperrealista, questa storia di sopravvivenza fisica e mentale portata al suo parossismo, ha evidentemente interessato e convinto larghe schiere di pubblico, e giurie.
Una storia in fondo piuttosto canonica di un uomo lanciato verso e oltre i propri limiti, eppure trasformata dall’opera registica di Iñárritu (a oggi forse uno dei cineasti contemporanei in assoluto più talentuosi e interessanti del panorama internazionale) in qualcosa di epico, fondante, unico.
Passeranno infatti alla storia non solo la scena madre di lotta cruenta uomo contro grizzly, ma soprattutto quei luoghi, infiniti eppure asfissianti, quelle lande gelide sovrastate da alberi secolari e altissimi dalle quali trapelano, costantemente, una fioca luce o solo un buio denso.
Lande attraverso cui la lotta per la vita si fa sempre più dura, e si mischia al racconto di una Natura superiore, sovrana, che come nel cinema di Terrence Malick (che per questa pellicola si è spesso tirato in ballo al confronto) raccoglie in Revenant il suo ruolo da protagonista, deus ex machina, e che Iñárritu descrive in quella coltre nebulosa che avvolge l’uomo e ne minaccia il percorso, impedisce la sopravvivenza.
Ed è proprio in questo scatto estetico (supportato dall’ottima fotografia di Emmanuel Lubezki) e registico, che Iñárritu rivendica ancora una volta la propria bravura, capacità di rendere giustizia e riaffermare fede nelle proprie “regole della sopravvivenza”.
Trame sottili, a tratti perfide, rintracciate in quel fil rouge di storie di vite osteggiate e minacciate dal contesto così come dal caso, e proiettate nella loro disperata ricerca di salvezza e che, sin dall’esordio di Amores Perros e lungo tutta la trilogia sulla Morte, hanno contraddistinto la cinematografia di questo oramai celebre e più che applaudito regista messicano alla conquista di Hollywood.
Amores Perros e la Trilogia sulla Morte
Amore Perros (2000), opera prima di Alejandro González Iñárritu è il primo capitolo (seguiranno poi 21 grammi - Il peso dell’anima nel 2003 e Babel nel 2006) di quella che verrà poi definita la Trilogia della Morte, ovvero un terzetto di film dove il dolore e l’elemento (appunto) della Morte, della perdita, costituiscono il nucleo centrale della narrazione a incastri.
Anche se poi, a condurre il gioco di destini incrociati sono sempre il caso e le fatalità, altri elementi narrativi da sempre presenti e preponderanti nel cinema di questo regista messicano.
L’esordio con Amores Perros è a dir poco folgorante, e getta già una chiara luce sul talento di Iñárritu, sostenuto in quello e nei successivi due film anche dal talento alla scrittura dell’ex amico Guillermo Arriaga (il sodalizio tra i due si dichiarerà poi definitivamente chiuso all’indomani delle incomprensioni sorte sul set di Babel).
La storia di cani, uomini e “amori bastardi” marcata stretta in una Città del Messico privata e prosciugata di luce e di speranza, è una di quelle che digrigna i denti, mostra la ferocia e – attraverso le tre diverse storie parallele – consegna allo spettatore un chiaro indizio sull’estetica principe del cinema di questo regista, immersa nel buio delle situazioni più ai margini e riscattata solo dalla interessante caratterizzazione, vitalità dei protagonisti che ne ispirano le vicende.
Esistenze che crollano sotto il peso di sciagure imposte dalle circostanze o dal destino già scritto e che si ritrovano tutte racchiuse in quella metafora di cani rabbiosi, aizzati l’uno contro l’altro e destinati (inesorabilmente) a sopravvivere o morire.
Un ottimo cast di attori tra cui il sempre bravo Gael García-Bernal (attore icona del cinema messicano) e le incalzanti musiche di Gustavo Santaolalla fanno il resto.
Sfruttando ancora e di più la struttura a storie parallele e incastri temporali, nel suo secondo (primo di produzione americana) e terzo film, Iñárritu conferma con 21 grammi e Babel, il “peso” specifico del proprio cinema.
Entrambe le pellicole, in qualche modo simili, incrociano storie e protagonisti diversi, accostati sempre dalla mano del caso o del destino.
Ancora una volta, dai cast corali emergono i “sommersi e i salvati”, protagonisti di un cinema che incute timore, solitudine, dolore, ma che proprio grazie alla sua forte chiave narrativa e al suo registro drammatico svincola e libera il concetto di vita portandolo a livelli ancora più alti, catartici, poetici.
A Biutiful Birdman
Un discorso raffinato che Iñárritu fa culminare poi nel suo film a oggi più ‘ragionato’, perfetto, compiuto, dove tematiche e generi confluiscono e si conciliano, ovvero Birdman.
La storia di un artista aggrappato con tutte le unghie (e le ali) al suo glorioso successo, rielabora infatti il concetto di sopravvivenza fisica (sperimentato in tutti i film ed estremizzato in Revenant) e ne fa scuola di vita, trasformandolo in sopravvivenza mentale.
Un ingranaggio esistenziale imploso, costretto tra incudine e martello, aspirazione e frustrazione, voglia di volare e probabilità di precipitare.
Anche qui, il protagonista (un ottimo Michael Keaton) esegue il suo percorso, volo pindarico attraverso linguaggio e metalinguaggio, solitudine e malinconia, dolore e sofferenza, eroismo e divismo.
Biutiful del 2010 con protagonista Javier Bardem e Birdman del 2015 con protagonista Micheal Keaton sono per certi versi un po’ due facce della stessa medaglia.
Entrambi i film, pur mantenendo in sottofondo quel senso di dramma e morte, corrono infatti lungo una linea narrativa unitaria, di due uomini proiettati nel cammino della sopravvivenza, fisica e/o mentale, di sé stessi o delle proprie ‘proiezioni’.
E se Biutiful(‘storpiatura’ dell’inglese bello) descrive una Barcellona contaminata dal male dove il protagonista cerca di salvare sé e la propria prole dal vortice del fallimento e della disperazione, in Birdman (uomo uccello) è l’essenza creativa, artistica del Riggan Thompson di Michael Keaton a celebrare invece la vita e la sua antitesi, entrambe serbate in un divismo capace di logorare l’uomo che lo ha prodotto.
E se Birdman è controparte ‘mentale’ di Biutiful, Michael Keaton diventa controparte attoriale di Javier Bardem, così come di tutti gli altri ‘highlander’ del cinema di Inarritu. Ovvero tutti i sopravvissuti, o più in generale coloro che tentano di sopravvivere agli affondi della vita o agli ‘screzi’ del destino.
Un vortice sempre denso e interessante di esistenze e destini incrociati, di protagonisti che spiccano in un mondo buio e maledetto.
Eppure, tra bellezze smarrite e uomini uccello in caduta libera, alla fine a volare alto resta sempre lui, con il suo cinema di nicchia trasformato a sorpresa in imponente successo internazionale. Alejandro González Iñárritu.