L’oscuro fascino della fantasia: il cinema di Tim Burton
Premiato nel 2007 con il Leone d’oro alla carriera presso la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, all’anagrafe si presenta con il nome di Timothy William Burton, ma, nato nella californiana Burbank il 25 Agosto del 1958, è semplicemente come Tim Burton che lo conoscono i seguaci irriducibili dei fotogrammi in movimento di cui rappresenta, senza alcun dubbio, uno degli esponenti maggiormente influenti e visionari.
In occasione dell’arrivo nelle sale della sua ultima fatica, Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali derivato dal romanzo La casa per bambini speciali di Ransom Riggs, ci sembra giusto ripercorrere la carriera di colui che esordisce diciottenne come animatore presso la Disney, per la quale prende parte a Red e Toby – Nemiciamici e, nel 1984, realizza il cortometraggio in bianco e nero Frankenweenie, candidato al premio Oscar e con il Barret Oliver de La storia infinita nei panni di un piccolo dottor Frankenstein impegnato a ricostruire il proprio cagnolino morto in un incidente.
Hei, Mr. Tim!
Frankenweenie arriva, comunque, due anni più tardi rispetto allo short Vincent, concepito in stop motion e riguardante in maniera fortemente autobiografica un ragazzino che fantastica sulle avventure horror dell’attore Vincent Price, suo mito, e uno dopo una versione televisiva live action della fiaba di Hansel e Gretel, che tira in ballo addirittura il kung fu, anticipando il suo primo lungometraggio per il grande schermo: Pee-wee's Big Adventure, che, voluto nel 1985 dal protagonista Paul Reubens, non rappresenta altro che l’occasione di trasferire dalla televisione al cinema il proprio personaggio Pee-wee Herman, in questo caso disposto a fare di tutto per riavere la propria bicicletta scomparsa.
Il semplice pretesto di inscenare un movimentatissimo viaggio che, tra cowboy, una banda di motociclisti e una camionista fantasma, consente al cineasta di sfruttare questa sorta di incrocio tra il precedente Buster Keaton e il successivo Mr. Bean al fine di mettere in piedi una sequela di divertenti situazioni che già lasciano intravedere la propria follia visionaria, in mezzo a brevi animazioni, un’escursione sul set di un film di Godzilla e un epilogo che, in maniera evidente, sbeffeggia il modo in cui Hollywood cambia del tutto fatti reali quando si trova a raccontarli su celluloide.
Follia visionaria che, superate alcune parentesi per il tubo catodico (un episodio di Alfred Hitchcock presenta e uno sulla lampada di Aladino per Nel regno delle fiabe), pur rimanendo nell’ambito dell’ironia accentua notevolmente in Beetlejuice - Spiritello porcello, che pone nel 1988 Michael Keaton nel ruolo del tanto mostruoso quanto scatenato bio-esorcista del titolo, interessato ad aiutare la coppia di fantasmi formata da Alec Baldwin e Geena Davis a spaventare la combriccola di newyorkesi alla moda che hanno invaso la loro pittoresca casa del New England.
Una bizzarra operazione aggiudicatasi il premio Oscar per il miglior trucco e che, comprendente nel cast anche una darkissima Winona Ryder degli esordi, ha generato una serie a cartoni animati ma non ancora il più volte annunciato sequel.
In principio fu l’Espressionismo...
È soltanto nel 1989, però, che Burton finisce finalmente all’attenzione del grande pubblico grazie al Batman che, con Keaton calato nel costume da uomo pipistrello del giustiziere miliardario più famoso di Gotham City e un eccellente Jack Nicholson nascosto dietro al trucco del malvagio Joker, fornisce le basi per tutte le successive trasposizioni cinematografiche da fumetto; forte delle splendide ed innovative musiche a firma del fido Elfman e di un’atmosfera non distante da quelle che caratterizzano il cinema horror (dal quale, tra l’altro, recupera il veterano Michael Gough per affidargli la parte del maggiordomo Alfred).
Atmosfera ulteriormente accentuata, tre anni dopo, nell’ancor più riuscito Batman - Il Ritorno, talmente debitore nei confronti dell’Espressionismo tedesco da trasformare Danny De Vito in un Pinguino piuttosto vicino, nel look, al succhiasangue di Nosferatu, il vampiro di F.W. Murnau e da chiamare il cinico magnate incarnato da Christopher Walken con il nome di Max Schreck, ovvero colui che lo interpretò in quel classico del muto, con Michelle Pfeiffer sexy Catwoman in latex.
Un lavoro altamente personale, come pure il precedente Edward mani di forbice, che segna nel 1990 l’inizio della collaborazione tra il regista e l’immenso Johnny Depp, al servizio di quello che non solo si rivela l’assoluto capolavoro burtoniano, ma anche la migliore rivisitazione del mito della bella e la bestia. Perché, come il titolo suggerisce, il divo di Hollywood è qui un individuo caratterizzato da taglienti forbici al posto delle mani, in quanto lasciato solo e incompleto dal suo creatore improvvisamente deceduto (il sopra menzionato Vincent Price), e che, scoperto nel suo lugubre castello da una rappresentante di prodotti cosmetici, viene ospitato dalla stessa in casa, dove s’innamora della figlia di lei, con le fattezze della Ryder. Ed è sufficiente citare la magnifica sequenza in cui quest’ultima danza sotto fiocchi di neve cadenti che scopriamo, però, essere generati dallo stesso Edward impegnato a scolpire un angelo in una zolla di ghiaccio, per testimoniare tutta la poetica e romantica bellezza sprigionata da quella che, in fin dei conti, vuole essere un'allegoria relativa all’artista non compreso (lo stesso Burton, per intenderci).
Ed, gli alieni e il cavaliere senza testa!
Artista incompreso come, forse, l’inconsapevolmente mediocre ma sempre ottimista Edward D. Wood Jr. raccontato nel 1994 in Ed Wood, ancora con Depp protagonista, girato in bianco e nero proprio per rispecchiare i cult del trash firmati da colui che venne giudicato (ingiustamente, a dire la verità) il peggior regista di tutti i tempi. Colui che, lontano dalle luci di Hollywood e appassionato in maniera bizzarra di travestitismo, viene utilizzato in maniera affascinante senza lasciar troppo celata una certa critica rivolta allo star system, contornato da una combriccola di freak comprendenti un vecchio e malandato Bela Lugosi cui concede anima e corpo un Martin Landau giustamente premiato con l’Oscar e pronto addirittura ad incontrare casualmente un Orson Welles dai connotati di Vincent D’Onofrio.
Combriccola di freak tipica dei prodotti di genere a basso costo degli anni Cinquanta cui rende omaggio due anni più tardi realizzando Mars Attacks!, rivisitazione in salsa demenziale della tematica della minaccia extraterrestre. Non a caso, caratterizzati da colorito verdastro e cranio di grandi dimensioni, rimandano direttamente agli alieni visti nel 1957 in Invasori dall’altro mondo di Edward L. Cahn i divertenti nemici dallo spazio in questione, armati di mortali armi da fuoco capaci di ridurre a scheletro chiunque venga colpito dal loro raggio. Al servizio di una ironica, anarchica risposta al contemporaneo Independence day di Roland Emmerich, che, con un ricco cast (si va da Pierce Brosnan a Sarah Jessica Parker, passando per Michael J. Fox, Glenn Close e un doppio Jack Nicholson) a fare da tutt’altro che simpatica umanità meritevole di punizione, non può fare a meno di rientrare tra le più alte vette artistiche raggiunte da colui che sembra concludere il periodo maggiormente felice ed ispirato della sua carriera nel 1999, anno dell’ottimo Il mistero di Sleepy Hollow, ispirato al racconto La leggenda della valle addormentata di Washington Irving. Il suo personale omaggio al cinema del maestro della paura tricolore Mario Bava (d’altra parte, il piccolo ruolo di Lisa Marie si rifà chiaramente a quello della Barbara Steele de La maschera del demonio), che, infarcito di non indifferenti dosi di violenza e cattiveria, porta in scena un misterioso cavaliere nero senza testa che se ne va in giro, a cavallo, decapitando poveri innocenti in un villaggio del 1799.
È quasi magia Johnny!
Il mistero di Sleepy Hollow è un autentico gioiellino altamente dark che, nella parte di un eccentrico e scrupoloso poliziotto credente solo nella scienza e nei suoi strumenti, vede ancora una volta nei panni del protagonista Johnny Depp, destinato poi a tornare a lavoro sui set burtoniani nel 2005, nel 2007, nel 2010 e nel 2012, rispettivamente in La fabbrica di cioccolato, Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street, Alice in Wonderland e Dark Shadows.
Tratto dall’omonimo romanzo di Roald Dahl che già fu fonte letteraria d’ispirazione per Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato con Gene Wilder, il primo del poker è probabilmente quello più riuscito, atto ad inscenare – tra ambientazione innevata, numeri musicali e tanto humour nero – una corsa all’arrivismo mirata a ricordare che la famiglia, nella vita del singolo, rappresenta ancora oggi il valore più grande e che, a volte, le cose più semplici sono le più importanti.
Mentre il secondo, rivisitazione di un musical di Stephen Sondheim e Hugh Wheeler a sua volta adattamento del dramma teatrale di George Dibdin Pitt, risalente al 1842 (entrambi ispirati alla figura di un serial killer realmente esistito), nonostante le atmosfere cupe e gli abbondanti schizzi di sangue al sapor di vernice rossa lascia tranquillamente intuire che l’artista dietro la macchina da presa non sia più lo stesso dei tempi de Il mistero di Sleepy Hollow, ormai addentratosi in un percorso decisamente meno popolare e maggiormente rivolto a un pubblico imborghesito e ripulito.
Come testimonia anche il coloratissimo terzo, derivato dagli scritti di Lewis Carroll e ambientato nel magico paese delle meraviglie con il grande Johnny nei panni del Cappellaio Matto, prima di concedere anima e corpo ad un vampiro risvegliatosi negli anni settanta dopo essere stato due secoli sigillato in una tomba nell’ultimo dei quattro film, piuttosto pasticciata horror comedy che attinge da una vecchia serie tv tirando in ballo una colonna sonora di successi del passato (Nights in white satin dei Moody blues, Crocodile rock di Elton John e The first, the last, my everything di Barry White nel mucchio), la rock star Alice Cooper nel ruolo di se stesso e un notevole comparto attoriale (Eva Green, Michelle Pfeiffer, Helena Bonham Carter, Jackie Earle Haley e Chloë Moretz).
Le ultime storie di una vita incredibile
Tutti lavori che, provenendo da altre fonti, lasciano tranquillamente intuire una determinata perdita della capacità di inventare da parte di quello che, prima del XXI secolo, potevamo tranquillamente considerare un autentico genio innovatore della Settima arte.
Una tendenza iniziata da parte sua con Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie, movimentato ma insipido remake datato 2001 del super classico Il pianeta delle scimmie, che, con il protagonista originale Charlton Heston relegato a una breve apparizione truccato da ominide e Mark Wahlberg a fare da nuovo eroe, lascia riconoscere il tocco del miglior Tim, al massimo, nell’osservazione “Più diventiamo intelligenti e più il nostro mondo diventa pericoloso” e nel finale sfoggiante un forte sapore di b-movie.
Tocco visibile anche ne La sposa cadavere, (con l’immancabile Depp al doppiaggio) che, realizzato nel 2005 in animazione stop motion come il Nightmare before Christmas che sceneggiò dodici anni prima per farlo dirigere a Henry Selick, racconta sullo schermo una fiaba appartenente alla cultura popolare russa concretizzando un grottesco tunnel dell’orrore a base di matrimonio zombesco giocato sul paradosso tra il cupo e triste mondo dei vivi e quello dei morti, che, al contrario, viene descritto come colorato e vivace.
In Big Fish - Le storie di una vita incredibile (2003), versione su pellicola del libro di Daniel Wallace che guarda dichiaratamente alle opere di Federico Fellini nello sguazzare tra particolari sorelle siamesi, giganti e streghe dall’occhio di vetro per consentire a Billy”Watchmen”Crudup di ripercorrere tutte le favolose – ma difficili da prendere come vere – avventure che il padre gravemente malato Albert Finney gli ha sempre raccontato di aver vissuto. Un elaborato dalle atmosfere ed i colori decisamente circensi finalizzato a ribadire in che modo, a furia di raccontare storie, un uomo diventi quelle storie, ma che, pur rivelandosi, forse, il miglior Burton movie del terzo millennio, rimane imparagonabile alle eccelse prove sfoderate negli anni Novanta.
Eccelse prove che non vengono eguagliate neanche dagli apprezzabili Frankenweenie e Big eyes, rispettivamente del 2012 e del 2014 e, comunque, del tutto differenti tra loro. Infatti, il primo è un cartoon in bianco e nero che estende a lungometraggio – con omaggi ai film di mostri giapponesi e al Dracula di Christopher Lee – quanto narrato nell’omonimo short di cui sopra, il secondo prende spunto da fatti realmente accaduti per inscenare tra gli anni Cinquanta e Sessanta una delle più leggendarie frodi artistiche della storia. D’altra parte, man mano che viene ricordato sia che gli occhi sono lo specchio dell’anima e che un artista non annuncia il suo capolavoro, seguiamo uno strepitoso Christoph Waltz destinato a raggiungere un enorme successo grazie ad enigmatici ritratti di bambini che, pare siano opera di sua moglie Amy Adams.
E' con questo biopic dal sapore di favola (con tanto di vecchi film di fantascienza richiamati alla memoria dalla breve sequenza che mostra tizi dalle iridi assurde in un supermercato) che chiudiamo questo lungo escursus all’interno della filmografia del maestro che, oltre ad essersi occupato anche di diversi cortometraggi qui non citati, ha prodotto, tra gli altri, Batman forever di Joel Schumacher, La leggenda del cacciatore di vampiri di Timur Bekmambetov e Alice attraverso lo specchio di James Bobin.